In quella foto il nonno sembrava un rospo, così lo chiamavano i suoi commilitoni. Tarchiato, le guance cadenti, gli occhi piccoli, la calvizie incipiente. La nonna invece era bellissima e leggiadra, elegante nel tailleur alla Marlene Dietrich e la spilla a forma di libellula. Semplice bigiotteria, ma la faceva sentire una regina.
Giro tra le mani la cornice, sembra d’argento. Forse riuscirò a ricavarci qualcosa. Il nonno ha lasciato in eredità molta paccottiglia, alcuni debiti e questa casa ricca di ricordi e crepe. Appena arrivato alla pensione realizzò il sogno di ogni anziano piemontese trasferendosi al mare, ma in una sistemazione spartana. Casa sua era all’interno di un condominio che ricorda le case popolari delle periferie, qualche cenno di decadenza che necessita di lavori di restauro. Un alloggio di pochi metri quadrati che aveva calcolato solo per lui, per levarsi l’impiccio di dover ospitare qualcuno. Confinava con l’autostrada. Le onde del mare non si sono mai sentite, in compenso si avvertiva un meno romantico perenne vai e vieni di mezzi di trasporto, a ogni ora del giorno e della notte. Neanche ci andava, al mare. Preferiva i bar e i centri per le scommesse. No, non ha avuto fortuna al gioco. E la storia con la nonna non può definirsi fortuna in amore.
Era bella e dolce ma malata di cuore. Nel secondo dopoguerra le visite mediche e le cure costavano parecchio. A nulla servì indebitarsi per salvare la sua amata, rimase vedovo e con due bambini. Crescendo fecero una brutta fine: il maschio, mio padre, morì a quarantacinque anni di cirrosi epatica. Mia mamma se n’era già andata via di casa da parecchio. La sorella, mia zia, non sappiamo che fine abbia fatto. Un giorno sparì. Non si presentò più a lavoro, ma nessuno indagò. Risulta come persona attualmente scomparsa.
Una lunga vita l’ebbe solo il nonno che morì centenario e ancora in buona salute. “L’erba grama non muore mai!” amava dire. Nato nel 1920, fu chiamato in guerra durante il secondo conflitto mondiale. Ebbe l’unico merito di sopravvivere a molti di suoi compagni, illeso, questa fu la sua unica grande fortuna. Conserva più ricordi di quel periodo, tra cimeli, giornali dell’epoca e fotografie, che della famiglia. Ma la foto di Edvige, la sua libellula, è sempre rimasta con lui, a fianco della televisione.
Forse c’è qualcosa di valore in cantina.
Ho una malattia tanto debilitante quanto rara, a tal punto che neanche i medici ci hanno capito qualcosa. Le danno un nome, fanno altre analisi, poi capiscono che non può essere quella patologia e allora cambiano diagnosi ripartendo da capo. Le cure mi fanno stare male, mi tolgono le forze.
Nessun compagno è riuscito a starmi a fianco per più di un mese. Troppo stress. La vita è già difficile così com’è, mi dicevano… Tutti!
Non sono di certo fortunata, per di più quando passeggiavo nel mio paese di origine vedevo gesti strani. Gente che sputava per terra dove ero passata, anziani che borbottavano quando mi vedevano, dicevano che io ero maledetta, come tutta la mia famiglia.
Non ho mai creduto a nulla, agito la mano come per scacciare un brutto pensiero e recupero da sopra il comò dell’ingresso il mazzo di chiavi del nonno.
Il portachiavi è un bossolo di un proiettile che, così diceva, lo colpì solo di striscio.
Scendo le scale, vengo travolta da un puzzo di muffa. Mi gira la testa, ma ho bisogno di andare in cantina. Mi sono munita di una torcia elettrica, sia mai che si sia dimenticato di pagare la bolletta.
Accendo la luce, per fortuna la lampadina funziona. Scaffali. Mura di cemento armato. Qualche macchia di umidità. Scatole con scritte e date. Ne sposto qualcuna, ma vedo quaderni rosicchiati e pieni di cacca di topo e mi irrigidisco. C’è un bel baule vicino al muro, se ben restaurato potrebbe valere qualcosa.
Un lucchetto.
Guardo nel mazzo e noto una chiave più vecchia delle altre. La provo. Si apre. Devo guardare bene, alla luce del sole. Non è troppo pesante. Torno al monolocale del nonno. Pian piano. Ce la posso fare.
Tre piani mi hanno sfiancata, ora vediamo se trovo un tesoro. Spargo il contenuto sulla tovaglia cerata della cucina, il luogo più illuminato della casa. Medaglie arrugginite con una coccarda tricolore. Una foto di Vittorio Emanuele III e della regina Elena con su scritto “Grazie per i servigi”. Dubito sia scritto da loro. Ancora giornali, cartoline che scriveva alle suore che l’hanno allevato per dire che era ancora vivo e di pregare per lui. Una vecchia divisa con qualche buco. Fosse stata in una condizione migliore, avrebbe avuto il suo valore. Proverò a venderla su eBay.
Una scatola di metallo… La apro. Cadono delle erbe essiccate, sento un profumo strano, come qualcosa che doveva essere aromatico, ma ha subito il passare del tempo. Forse tabacco con del muschio, ma ormai sono frammenti di foglie indistinguibili.
C’è altro sotto, lo avverto dal peso. Devo ricordarmi di lavare le mani per almeno mezz’ora. Con la fortuna che mi ritrovo qui si è conservata la peste bubbonica insieme al vaiolo. Frugo con l’indice, sento qualcosa di duro, freddo e viscido. Che cos’è? Una piccola bomba? Estraggo l’oggetto e lo analizzo avvicinandolo agli occhi. Sembra un timbro, ha degli strani segni e non riconosco le lettere. Che facesse parte di una setta segreta? Che facesse parte di qualcosa legato agli esperimenti di Hitler?
C’è anche un diario con copertina in cuoio, il nome Geraldo impresso a caldo, è chiuso con un lucchetto. Aspetta… nel mazzo c’è una chiave più piccola. Stavo per buttarla via perché pensavo fosse per la vecchia cassetta delle lettere. La infilo, si apre.
Ci sono annotazioni, date, disegni che ricordano quelli che ho visto sul timbro: dei mandala? No, sono dei cerchi con dei simboli e delle scritte in latino. Parto a sfogliarlo dall’inizio. Le scritte sono in inchiostro sbiadito ma sono ancora leggibili.

Odio immaginarla tra le braccia di quel fanfarone. Non potrà renderla felice. Ella necessita di un vero uomo. Serio. Disposto a sacrificarsi per lei. Quell’uomo è bravo solo a parole. Lo sta dimostrando sul campo di battaglia. Siamo nello stesso battaglione e lo vedo, privo di coraggio, non avanza mai per primo. Se ne vanta. Dice che la sua bella è più importante della Patria. Prima l’Italia!

Più ci penso e più mi convinco. Edvige deve essere mia. Deve diventare carne della mia carne e dare prole alla Nazione. Non la lascerò a quel pusillanime.

Edvige, il nome di mia nonna. Sta dicendo che aveva un precedente fidanzato?

Era così semplice, perché non ci ho pensato prima?Mi sarei tolto il pensiero. Ho dovuto aspettare, non volevo testimoni così sono tornato da solo. Ho finto rimpianto. Nessuno mi ha fatto domande. In ogni battaglione si è abituati alle perdite, anche durante una semplice perlustrazione. Ho dichiarato che è finito su una bomba inesplosa. E invece gli ho sparato un caricatore addosso. Ho preso il suo portasigarette d’argento, quello stolto ci conservava il ritratto di Edvige. Infilare l’immagine di un angelo in mezzo al tabacco, solo un vizioso come lui poteva farlo. Egli era ancora vivo, ha aperto gli occhi. Il sangue gli ricopriva il volto. Per non parlare dell’addome, potevo vedere le interiora di quel cane. Egli ha osato… ha osato maledirmi. Mi ha dato del bastardo… Mi ha chiamato rospo traditore, giurando che non avrò mai la sua promessa sposa.
Con il coltello in dotazione gli ho strappato l’ogiva del proiettile dalle carni per non rischiare che venisse trovato. Lo conservo ancora. Ho raccolto i bossoli da terra. Ha urlato come un maiale sgozzato. Ha avuto dei fremiti, ha mormorato qualcosa mentre vomitava sangue, poi ha smesso. Schifoso essere inutile. Gli ho spappolato una gamba per rendere le ferite più veritiere, ma so che nessuno farà l’autopsia a quel disgraziato… Mi ha fruttato due denti d’oro, comprerò un bel regalo a Edvige.

La famosa spilla!
Ci sono plichi legati con uno spago. Uno è più pesante, lo taglio. Eccolo, il portasigarette. La foto di mia nonna all’interno. La sua espressione è differente dalla foto col nonno, sembra molto più felice. Una dedica: “Al caro Nevio, per sempre tua. Con amore. Edvige”

E dei bossoli.
Le prove! Cazzo, il nonno ha ammazzato il fidanzato della nonna! Questo fa di me la nipote di un omicida!
Le pagine successive si leggono appena, ma parte della storia la conosco. Il nonno che comunica della morte del suo compagno a Edvige fingendosi dispiaciuto. Le ha anche raccontato che ha fatto di tutto per salvarlo, che era con lui, che ha promesso di prendersi cura di lei. Che stronzo.

E mia nonna gli ha creduto e si è sposata con chi ha ucciso il suo Nevio.

Non posso perderla, ora che è mia. Voglio altri figli da lei, ma ormai è debole. Non si concede più, dice che i medici le sconsigliano ciò che potrebbe accelerare il battito cardiaco.”

Sfoglio altre pagine.

In America c’è un chirurgo sufficientemente bravo per curarla, ma si tratta di terapie sperimentali. Sono sommerso dai debiti!”

Ho trovato dei testi interessanti, ma sono in latino. Ho pagato un prete per tradurli. Ho comprato il suo silenzio e mi sono confessato, pur non essendo pentito di ciò che ho fatto.”

Che fastidio, questa mosca che gira. Devo capire. Non si è pentito di cosa? Dell’omicidio? Cosa c’entra il latino?

Ormai il sigillo è stato fuso secondo le indicazioni del libro, stanotte farò il cerchio per evocarlo. Edvige dorme con i bambini, non si accorgeranno della mia mancanza. Il prete mi ha dato un rosario che tengo stretto nella mano. Lo userò per proteggermi. Andrò dietro al cimitero del paese, sarò tranquillo e nessuno mi vedrà.”

Il cerchio… non sono certa di volere sapere cosa stesse evocando.

Gli uccelli notturni smisero di fare i loro versi. Era come se si fosse zittito l’intero paese. Un silenzio non di questo mondo. Seguì un sentore strano, polvere da sparo e sangue. Ed egli è apparso. Sembrava un nazista, con l’anello col teschio. Un ariano altissimo. Il volto spigoloso, quasi un cranio con occhi e pelle, in altissima uniforme. La guerra è finita da parecchio, che ci faceva lì? Poi ho capito, si trattava dell’entità ultraterrena che avevo evocato. Gli occhi avevano le pupille come quelle di una capra. Era Lui, il Signore Oscuro. Belzebù.
Mi ha chiesto cosa gli avrei potuto offrire. Gli ho risposto: la mia famiglia. Ha riso. Sapeva che ero orfano, che sono stato cresciuto dalle suore, che le odiavo, che ho scelto la carriera militare perché non avevo scelta. Sapeva dei miei figli, ma non gli bastavano. Gli dissi che poteva prendersi i figli dei figli, e poi ancora, fino alla fine della mia linea di sangue. Stavo sigillando il patto ed è apparso l’altro. Nuccio. Come se fosse giunto dalla sua tomba vuota. La sua rabbia, o forse il suo amore, gli ha permesso di accedere all’interno del velo che avevo creato tra i due mondi. La sua maledizione in punto di morte gli ha dato la forza. Il Diavolo ha riso ancora, questa volta delle mie sfortune e del mio amore. Poi ha detto che ci saremo rivisti all’inferno.”

La scrittura è tremante. I pensieri sconnessi.
Vado avanti.

Deve sempre rovinare tutto, quel vile! Maledizione! Ho offerto tutto quello che potevo. Tutto. Per salvare Edvige, per guarirla, per vivere con lei una vita lunga.
Ho offerto tutta la mia famiglia. Tutta! I miei figli, i figli dei figli e dei figli a venire al signore delle mosche…”

Edvige è morta. L’ho avuta ancora per tre anni. Poi se l’è presa. Non merito l’inferno, perché sono stato mosso da Amore, solo da Amore, e l’Amore non è mai peccato. Così mi ha detto il prete che ho pagato, e che di certo Dio, il vero Dio, ha visto la mia sofferenza e ne ha una pena infinita. Pregherà per me. Vivere per me è un inferno. Spero che possa presto morire per poter stare con Edvige.”

Amore mio, ho solo pensato a te, a vivere con te. Per sempre maledetto, per sempre solo tuo.”

Sono per terra, senza forze. Mi rialzo, ho bisogno di un bicchiere d’acqua. Anche di una sigaretta.
Non capita tutti i giorni di capire che la sfortuna della tua famiglia è stata causata da tuo nonno… Geraldo. Tutta quella sofferenza, la mia malattia, ciò che è successo a mio padre e a mia zia. Siamo stati il prezzo da pagare per salvare la nonna e non ha funzionato per intromissione di un rivale.
Tutto questo… non può essere vero. Deve essere frutto della fantasia del nonno, un modo della sua mente per accettare la morte della nonna. Dopo tutto è stato reduce di guerra, ho letto da qualche parte che a causa dello stress subito possono i reduci possono cadere vittime di allucinazioni.
Corro in bagno, mi sciacquo la faccia. Il freddo mi fa rabbrividire, una goccia gelida si infila nella manica.
Mi guardo allo specchio. Gli occhi azzurri spiccano di più con il mascara colato.
Sono bella, sono giovane, ho una malattia che non so se peggiorerà tanto meno quanto ancora mi resterà da vivere. Io voglio vivere!
“Chiamami, sai come farlo!”
Il volto abbronzato e liscio di un uomo sui trent’anni, capelli lunghi, neri come ebano è apparso allo specchio, ha parlato e poi è sparito.
Mi sono girata, ho pensato a un vicino che fosse entrato di nascosto nella casa. Gli anziani a volte danno le chiavi ad altri condomini. Nessuno.
Potrebbe… no, non è possibile.
Mi preparo del latte caldo. Mi lascio tentare dal mobiletto degli alcolici. Un assaggio di qua e uno di là, mescolati con le solite medicine, poi il buio.
“Ti aspetto…” quel volto, quella voce.
Si insinuano nella mia mente, come un richiamo. Il mare mi sta chiamando, è lì che devo celebrare il rito. Forse sto dormendo e sto ancora sognando, o forse sono in trance, come se fossi guidata da un istinto arcaico mi preparo per uscire. In mano stringo il diario del nonno.
Un velo di nebbia in una notte d’inverno senza luna. Non si vede un turista neanche la domenica. Un angolo di spiaggia parzialmente nascosto da un locale che apre solo d’estate.
Il buio mi proteggerà. Le candele sono accese e riparate all’interno delle burnie, i barattoli di vetro che il nonno teneva per le conserve.
Ho i brividi, sopra al mio piumino mi sono infilata il vecchio paltò di lana del nonno. L’umidità e il freddo mi sono entrati dentro. Diamo inizio a questa scenetta, se dal mare emergerà Cthulhu mi sembrerà di aver visto una serie TV Netflix. I disegni si realizzano abbastanza bene sulla sabbia. Dovrò fare il cerchio un po’ più grande. Userò un cucchiaio di legno trovato in cucina.
Inizio l’evocazione. Creo i solchi seguendo le pagine del diario illuminandolo con la torchia del cellulare, poi passo a mormorare le frasi in latino. Piegandomi sento dolore alle ossa, le parole escono tremanti, ma pian piano la mia voce cresce, si stabilizza, diventa piena. Inizio il rito, mi accompagna lo sciabordio delle onde.
Le mie mani iniziano a muoversi con sicurezza, non sto più guardando il diario. Il telefono mi è scivolato dalle dita, la poca luce delle fiammelle tremolanti mi è sufficiente. Dalle labbra screpolate esce una litania sommessa, ogni parte del corpo ha sviluppato autonomia. I miei occhi hanno un altro modo di percepire la realtà. Riesco a distinguere ogni granello di sabbia, come se avessi una vista potenziata. E a un certo punto lo vedo arrivare. Sbatto gli occhi, c’è ancora. Si avvicina con passo lento ma sicuro. Alto, indossa dei jeans strappati ad arte, un cinturone vistoso e una camicia di raso nera aperta. Forse sono a casa, e mi sono addormentata ubriaca davanti a una puntata di Lucifer.
L’uomo si avvicina, mi accarezza il viso e avvicina le labbra alle mie orecchie, mi sfiora un lobo e sussurra: “Sono qui per te!”
Mi avvolge un tepore, come se il freddo della notte avesse lasciato spazio al tepore della primavera. Forse un filo di vento Phon, vorrei pensare, ma so che non è nulla di naturale. Nulla che segua le leggi della natura che conosco, intendo.
Abbandono il paltò, mi sfilo il piumino. Fino a lasciare sulla sabbia ogni indumento, persino quelli intimi.
Tutto sotto al suo sguardo, a quegli occhi inquietanti con la pupilla lunga e sottile. Il suo corpo mi attrae, mi sdraio e lui sale sopra di me. Mi prende facendomi male e infondendomi un piacere immenso, mai provato.
Ci muoviamo al ritmo delle onde, come se il mondo intero ci appartenesse e rispondesse ai nostri movimenti sinuosi. Godo, più volte. Poi giaccio, esausta, ancora con i brividi degli orgasmi.
“Cosa mi darai in cambio?” lui è a mio fianco, sorride predatorio, e sento la sua pelle asciutta, calda e profumata di fieno che aderisce alla mia, sudata e fredda.
Cosa posso offrirgli? So di non avere niente da gettare sul piatto. Sono come un giocatore di poker che, dopo una serie sfortunata, tenta un bluff all’ultima mano. Non possiedo nulla che lui già non abbia avuto. Un momento..… già avuto… Mi rendo conto di non essere guidata da passioni annebbianti, ma solo dal mio egoismo. Non sono e non sarò mai come il nonno. Sono molto peggio.
“Voglio salute e l’amore di un uomo! Null’altro mi interessa!”
Mi accorgo di star urlando. Mi giro a guardarlo, ma di fianco a me c’è solo sabbia e vestiti sparsi.
Lascio questa testimonianza del mio sacrificio. Una storia d’amore malato e folle conclusa con un atto di egoismo estremo. Una vita che inizia sacrificando il futuro di molte altre. Sento già nel mio ventre crescerne una.
Il mio gatto mi ha soffiata e graffiata in faccia quando sono rientrata a casa, e poi è scappato.
Ora sono sola con questa nuova creatura che cresce in me. Non ho più avuto rapporti da quella notte in spiaggia. Non lo terrò, in ospedale posso darlo in adozione. Sono come Mia Farrow in Rosemary’s baby, o più come la madre dell’Anticristo in Good Omens? Chi se ne frega, farà la felicità di un coppia in difficoltà. Almeno per un po’. Io invece mi godrò la vita. E il figlio di Satana camminerà sulla terra. Il Diavolo sapeva già cosa avrei chiesto, mi conosceva già prima che nascessi. La mia linea di sangue era già maledetta. Magari diventerà una rock star, uno scrittore, un regista… e se… invece…
Possa Dio o chi per esso perdonarmi. E se lui non può, abbiate voi pietà di me, se ci riuscite.

di Sara Ronco

Foto di Ubex_Footsteps

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