Arrivai alla magione quando il sole era ormai tramontato. Il filare di pioppi che accompagnava il vialetto d’ingresso proiettava ombre deformi sulla strada sterrata. Nessun cancello a delimitare la proprietà: la pallida dimora spuntava maestosa tra un campo di frumento macchiato dal rosso dei primi papaveri e un vigneto incolto ma rigoglioso. Dalle enormi finestre filtrava una luce calda, ogni stanza dei tre piani dell’abitazione sembrava brulicare. Lo sciame libero mi era stato segnalato dall’associazione quello stesso pomeriggio: una mail telegrafica con l’indirizzo del luogo. Nessuna informazione sui proprietari. Parcheggiai nel cortile di fronte, dove un muretto strangolato dal caprifoglio segnava il confine con i terreni coltivati. Da così vicino il candore della casa era diventato ancora più ingombrante. Presi tuta e attrezzatura dal bagagliaio e mi avviai alla porta d’ingresso. Senza bussare, fui accolta da una figura inaspettata: una donna sulla quarantina, dai corti capelli ricci e bruni, con occhi altrettanto scuri. Indossava una camicia da lavoro e pantaloni con bretelle, mi ricordò una fotografia di gioventù dei nonni. Sembrava essere appena tornata dai campi, come tradiva anche la carnagione bronzea arrossata dal sole. «Salve», iniziai, «sono l’apicoltrice dell’associazione, mi è stato segnalato uno sciame insediato nella vostra proprietà» le dissi. Con un sorriso curioso mi rispose «Benvenuta», non si presentò e proseguì «nidificano sempre nel rosone del sottotetto in questo periodo dell’anno» e aggiunse con una risata «poetico non trova?». La guardai confusa, ma lei mi ignorò e concluse «Le cerchi pure, come hanno fatto gli altri». Le sue ultime parole sembrarono risvegliare dentro di lei un ricordo spiacevole, qualcosa sul suo volto cambiò: sui brillanti occhi castagno che mi avevano accolto calò un velo di tristezza che sapeva di eterno e il suo sorriso malizioso si contorse in una smorfia di puro dolore. «Segua le rampe di scale. Non può sbagliare». Quella brusca conclusione, in netto contrasto con l’accogliente benvenuto, mi turbò, ma ancora una volta lei non parve accorgersi di nulla. Con un cenno del capo oltrepassai quel viso ora inquieto e angosciato, ed entrai nella casa. La prima impressione fu quella di un ambiente modesto: uno spazio ampio costruito per contenere molte persone, come tutte le case padronali di campagna, ma ridotto all’essenziale nell’arredamento. Intravidi la cucina illuminata dal maestoso caminetto, la tavola sembrava essere appena stata apparecchiata, come se fossi arrivata un momento prima che la padrona di casa chiamasse tutti a cena. Dal lato opposto dell’ingresso si scorgeva la sala da pranzo, con un lungo tavolo massiccio per gli ospiti, più elegante della cucina ma molto meno vivace. Le luci erano accese anche lì, tuttavia l’impressione era quella di una sala di un museo, inutilizzato da anni, non attraversato da persone vive da tempo. La donna non mi seguì mentre salivo i primi gradini di legno scricchiolanti. Al primo piano iniziai a sentire il ronzio dello sciame, ancora indaffarato a costruire il nuovo favo nonostante l’imbrunire. Appoggiata al muro c’era una cassettiera di mogano lucido, sulla superficie erano posizionate alcune cornici di argento capovolte e al di sopra si trovava uno specchio coperto da un lenzuolo sgualcito. Avvicinandomi a quella ambigua composizione, mi accorsi di un taccuino dalla copertina nera, sembrava un quaderno scolastico. Era aperto, le pagine a righe erano strappate e nell’unico spazio integro visibile si leggeva: “Scappate o bruciate”. Era la scrittura di un bambino, rabbrividii. Un senso di angoscia si aggrappò al mio stomaco. Obbligai me stessa a proseguire, dovevo trovare lo sciame e andarmene. A sinistra del corridoio una serie di porte socchiuse si estendeva fino alla successiva rampa di scale. Da ogni stanza filtrava luce, all’interno dovevano esservi tutti gli abitanti della casa che non avevo ancora conosciuto, pensai. Mi avvicinai alla prima e sentii delle voci provenire dall’interno: la risata complice di due donne, scherzavano e si punzecchiavano a vicenda. Tutt’a un tratto la conversazione si fece più seria, come se qualcuno avesse improvvisamente cambiato canale. «Che ci minaccino pure quei maiali» diceva una delle due scandendo ogni parola colma di rabbia, «questa è la nostra casa». Quella voce mi sembrò conosciuta, ma quando sbirciai dalla fessura non riuscii a scorgere nessuno. Forse la stanchezza della giornata mi stava giocando brutti scherzi. La stanza successiva conteneva urla gioiose di bambini, sembravano immersi in un gioco di pirati: «Dove siamo diretti capitano?» stava urlando uno, «Levante» rispondeva entusiasta l’altra vocina. Ma ancora una volta quando la oltrepassai non una sola ombra si mosse. Possibile che l’atmosfera si stesse prendendo gioco di me? Un seme di angoscia stava germogliando all’interno delle mie viscere. L’ultima porta era completamente chiusa, la luce che filtrava da sotto era calda ma troppo intensa per provenire dall’illuminazione. Quando mi accostai mi invasero l’odore acre del fumo e grida disperate di donne e bambini. Scaraventai a terra l’attrezzatura e mi avventai sulla porta, provai ad aprire ma la serratura sembrava essere bloccata dall’interno. Posseduta dal terrore mi allontanai di qualche passo e in quel momento udii solo il ronzio crescente dello sciame al piano superiore. Qualcosa di terribile era successo in quella casa: la violenza e l’orrore dell’indefinibile mi si stavano attaccando addosso come fuliggine. Doveva esserci stata gioia un tempo, poi soffocata dalle fiamme e dal miasma. Corsi per raggiungere il sottotetto. Nonostante la fretta notai appese alla parete della rampa di scale alcune vecchie foto incorniciate, anch’esse coperte da lenzuola. Si potevano intravedere alcuni dettagli: una data – 11 maggio 1931 -, dei piedi di bambino, il volto sorridente di una donna vicino a un altro nascosto da un berretto che lasciava scorgere un sorriso beffardo familiare. Arrivai affannata e terrorizzata al secondo piano, l’unica stanza buia dell’abitazione. Seguii il ronzio dello sciame che, come predetto dalla donna, stava costruendo l’alveare nel rosone. Individuai la vecchia regina, la riposi tremante nell’arnia portatile, le operaie la seguirono. Era uno sciame mansueto, come se mi stesse aspettando e avesse imparato a memoria il copione dell’operazione di recupero. Chiusi l’arnia portasciami e ripercorsi svelta i tre piani di scale. Lo spazio che mi lasciavo alle spalle sembrava svuotarsi, consumato a ogni passo: non c’erano urla terrificanti, grida gioiose o risate quando attraversai le porte al primo piano, la generosità di luci era scomparsa e non c’era traccia della donna che mi aveva accolta. Quando arrivai ansimante alla macchina mi voltai un’ultima volta: il candore della dimora era stato sostituito dalle cicatrici oscure di un incendio, metà abitazione era crollata rendendo impossibile andare oltre il piano terra. Quando aprii l’arnia, era vuota.

di Rebecca Santimaria

Foto di Ubex_Footsteps

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