Quando eravamo piccoli, io e mio fratello scalpitavamo per sentire i racconti di nonna Ruth riguardo alla nostra famiglia. Mi ricordo che partivamo all’attacco finita la cena, dopo che le avevamo dato la consueta mano a pulire e riassettare la casa.
Iniziava Adam, mio fratello minore, facendo la sua faccia da “se non ci accontenti potrei morire” e io scoppiavo sempre a ridere, ma poi cercavo di essere convincente, congiungevo le mie piccole manine da bimbo di otto anni e la pregavo di cuore.
Lei sbuffava, finta esasperata, e poi si sedeva sulla sua poltrona preferita, vecchia e consumata, dalla fantasia floreale, ci guardava mentre finivamo di riporre i piatti ormai asciutti, dal lavello al ripiano del mobile, e aspettava che arrivassimo all’ultimo. Quello era il segnale: avevamo vinto noi anche per quella sera. Come se poi ci fosse mai stata una sera in cui la nonna non ci avesse accontentati.
Ci sedevamo ai suoi piedi, oppure a volte ci sdraiavamo sull’enorme tappeto dai disegni arabeggianti, consumato ai lati, che occupava tutto il salotto. Quando infine raggiungevamo il silenzio assoluto, lei annuiva sorridendo e iniziava a raccontare.
Iniziava alzando le mani sopra la testa, incuneava il capo fra le spalle e sussurrava due parole che ci facevano tremare di paura, ma anche ridere, come solo i bambini sanno fare.
«Diavolo Nero.»
Era con quelle due parole che iniziava sempre il nostro rito del racconto.
La nonna ci spiegava che nella nostra famiglia, da secoli, si tramandava la leggenda di questo Diavolo Nero, un morbo che colpiva uno ogni mille di noi. Spuntava fuori durante la pubertà, e rendeva il suo portatore un mostro assetato di sangue.
«E perché succede proprio nella nostra famiglia, nonna?»
Quella era la prima domanda di Adam, sempre, immancabilmente ogni sera.
Chiedeva il perché, ma non come se credesse in una vera maledizione, lo domandava in modo ingenuo, con uno scintillio negli occhi che esprimeva tutta la meraviglia di un bambino di quattro anni.
Mi ricordo bene come la nonna si rabbuiava, ma a quel tempo neanche ci facevo caso. La guardavo e basta, in attesa di una risposta, anzi, della “Risposta”, quella che ormai sia io che Adam conoscevamo a memoria.
«La nostra famiglia ha fatto arrabbiare un Dio del Mare, quando ancora c’erano pochi uomini che camminavano sulla terra. Ha ucciso molti dei suoi figli, così lui ci ha puniti, ibridandoci con uno degli esseri più mostruosi che avesse mai potuto concepire: il pesce abissale, una creatura spaventosa, costretto a vivere nelle profondità marine per non spaventare gli altri suoi simili,» rispondeva seria, e noi non capivamo il vero senso di quelle parole così strane, ma parlare di Dèi ci faceva sempre andare su di giri, perciò la nonna lasciava stare, senza ulteriori spiegazioni, e continuava il racconto.
Alzava ancora di più le mani sopra la testa e poi gettava le braccia in avanti, spostandosi con tutto il torso, fino ad arrivarci a pochi centimetri dal naso. E, malgrado lo facesse tutte le sere, io e Adam ridevamo, ignari di tutto ciò che ci aspettava, come se vedessimo quel gesto per la prima volta. Due bambini felici, nonostante fossimo orfani, circondati dall’amore della nonna.
Quando le nostre risa infine cessavano, solo allora lei riprendeva dicendoci che il Diavolo Nero aveva bisogno di stringere un accordo con un membro puro della famiglia, e a quel punto interveniva sempre Adam: «Che vuol dire puro?» chiedeva ogni volta, e io, che ero più grandicello, ma comunque ancora del tutto ingenuo, lo guardavo con una finta espressione da saputo.
«Sei proprio un poppante,» sbottavo, e la nonna allora si metteva a ridere a sua volta, scendeva dalla poltrona e si sedeva composta sul tappeto, di fronte a noi, scuoteva la testa, arruffandoci i capelli.
«Significa che non si è mai innamorato di nessuno, cucciolo,» gli spiegava in termini che anche due bimbi come noi potessero capire, poi continuava: «Questa persona diventa a tutti gli effetti il tramite del mostro, così da poterlo nutrire, visto che dal momento della sua mutazione lui dovrà vivere segregato in un luogo buio e umido, senza mai più vedere la luce del sole, proprio come il pesce da cui è stato creato.»
«E perché non può uscire?» chiedeva sempre Adam, col labbro tremulo e gli occhi lucidi. «Non può più vedere nessuno?»
Nonna Ruth sorrideva e gli accarezzava la guancia, forse già sapeva?
«Oh, cucciolo, lui morirebbe al sole, la sua pelle non lo tollera più. È solamente per questo motivo, ma non sarà mai solo.»
E in quel momento guardava me.
I suoi occhi si incollavano ai miei, a quelli di un bambino troppo piccolo per capire quale fosse il proprio destino, il peso che avrebbe dovuto sopportare, le vite che avrebbe dovuto recidere, per salvare l’unica persona che mai avrebbe veramente amato.
In ogni caso, quando arrivò la notte precedente al quattordicesimo compleanno di Adam, niente sembrò sconvolgere la nonna, ma la mia intera vita di diciottenne cambiò in maniera così drastica che ancora oggi, a volte, mi sembra che sia tutto un incubo.
Adam si svegliò nel cuore della notte, gridando come un ossesso, chiamandomi, invocando la nonna e perfino mamma e papà.
Quando arrivai da lui, grondava sudore misto a sangue, la pelle sembrava sul punto di sciogliersi e io non sapevo come aiutare il mio fratellino che continuava a ripetere il mio nome, sconvolto dai tremiti.
«Speravo così tanto di essermi sbagliata.»
La nonna mi fece spostare e, nel farlo, caddi come un sacco di patate ai piedi del letto. Sapevo cosa stava succedendo, ci aveva addestrati per anni in vista di quell’evento. Adam soprattutto. Lo aveva consolato, allenato e preparato a diventare un mostro.
Lo portammo quella stessa sera vicino alla scogliera, in un appezzamento di terreno che da secoli era proprietà della mia famiglia.
Man mano che ci avvicinavamo potevo sentire l’infrangersi delle onde sulle rocce, sempre più forte. Gli alberi, che facevano da silenziosi spettatori lungo la strada privata per scendere alla spiaggia, si facevano sempre più fitti e alti, minacciosi come scheletri di giganti pietrificati, e così come aumentavano gli alberi, così faceva la febbre di Adam. Il suo corpo sembrava sul punto di squagliarsi.
«Resisti, cucciolo, ci siamo quasi.»
La voce di nonna Ruth non era mai stata così seria come in quel momento. Aveva una sfumatura di ineluttabilità che mi fece rabbrividire. Un diciottenne ancora vergine con in braccio il fratello di quattro anni più piccolo, che si stava sciogliendo vivo, stretto a lui nell’angusto spazio del sedile posteriore dell’auto della loro nonna.
Lei fermò la macchina e mi guardò dallo specchietto retrovisore.
«Adesso lui è compito tuo. Te ne prenderai cura, Cade, promettimelo.»
Provai in tutti i modi ad aprire la bocca, a dire qualcosa, a emettere anche un semplice verso strozzato, ma niente, le mie labbra rimasero incollate, bagnate da qualche fugace lacrima salata e rovente come acido.
Annuii rivolto alla donna che ci aveva cresciuto con amore. Lo feci con tutte le energie che mi erano rimaste, cercando di sembrare forte, di smettere di piangere.
«Hai capito che non tornerò più da voi, vero? Non credevo che questo momento sarebbe arrivato così presto… e il primo pasto deve essere somministrato entro un’ora.»
Lì per lì, non colsi il vero significato delle sue parole, forse neanche volevo farlo, ma continuai ad annuire.
Nonna prese Adam in braccio, un corpo quasi del tutto inerme, e si incamminò nella grotta che io, fino a quel momento, non avevo ancora notato, nascosta com’era fra le insenature della scogliera. Solo allora una scossa di consapevolezza mi attraversò il cervello. Ma ancora mi rifiutavo di processare quell’informazione. Ero talmente sconvolto che neppure pensai, come feci invece in seguito, che non avevo mai visto così tanta forza in mia nonna, una donna caparbia quando ancora era nel fiore dei suoi anni, ma adesso così fragile.
Mi riscossi del tutto solo quando la sentii urlare. Grida disumane, piene di dolore e di rimpianti.
Poi solo il silenzio.
Rimasi chiuso nella sua macchina per quelli che mi parvero giorni, anche se in realtà furono solo poche ore, troppo atterrito per uscire. Le sue urla continuavano a riecheggiarmi in testa, strisciando come serpenti tentatori, avviluppandosi alla mia memoria. Sentivo le spire della curiosità avvolgersi intorno al petto, stringersi sempre più forte senza darmi più la possibilità di respirare.
Non avevo toccato cibo, e tutti i bisogni che avrei dovuto espletare in un bagno avevano impregnato i pantaloncini da basket che usavo per dormire. Non molto decoroso per un diciottenne, ma preoccuparmi della comune decenza non era stata la mia priorità. Ero stato troppo impegnato a piangere e vomitare, a pisciarmi addosso e chiamare la nonna con sussurri sempre più flebili e disperati.
L’odore nauseabondo che si spandeva dal mio corpo, dai vestiti, non aveva fatto altro che stimolare il mio stomaco, già contratto dal terrore, facendomi rimettere ancora e ancora. Ero arrivato al punto di pensare che i miei succhi gastrici ormai si trovassero tutti sui tappetini dell’auto, oppure sui pantaloni. Gialli e viscidi, dall’odore talmente pungente che, per un attimo, quando mi riebbi, pensai che il mio subconscio fosse l’unica cosa rimasta in vita, mentre il mio corpo si decomponeva in fretta.
Riacquistai un minimo di lucidità solo quando sentii la voce di Adam.
«Cade!»
Quell’unica parola ripetuta più e più volte, rotta dal pianto, la paura palpabile. Sembrava talmente vicina che all’inizio mi guardai intorno, credendolo ancora accanto a me, solo dopo capii che probabilmente era un legame mentale, solo nostro. Mio e del Diavolo Nero.
Fu solo per quel motivo che mi costrinsi a scendere. Lo sportello si aprì con un suono cigolante che mai avevo notato prima. L’aria del mare mi parve più fredda, come dita che mi stringessero e cercassero di trascinarmi via, chiedendomi disperate di salvarmi. Suggerendomi che ero ancora in tempo.
Non era vero, non lo ero mai stato. Gli occhi seri di mia nonna Ruth, mentre raccontava la leggenda innumerevoli volte, si erano sempre posati su di me. Erano stati una condanna silenziosa. Ma, prima di quel giorno, come avrei mai potuto capire? Ero solo un bambino che, arrivato all’età che aveva adesso mio fratello, si era annoiato troppo in fretta di ascoltare quel vecchio racconto.
Quando mi affacciai all’entrata della grotta, la prima cosa che notai fu come il buio di fronte a me fosse quasi palpabile, un muro nero, oltre il quale sarebbe stato facile perdersi per non tornare mai più. La seconda cosa, fu il leggero pendio del terreno, che aumentava man mano che mi addentravo all’interno dell’antro, l’acqua fredda che mi lambiva le caviglie, bagnandomi le scarpe.
L’aria era satura di umidità e dopo pochi passi mi ritrovai completamente bagnato. Potevo sentire i capelli arricciarmisi sul collo, lente goccioline insinuarsi dentro il colletto della maglietta sdrucita che usavo come pigiama.
La voce di Adam mi arrivò da una distanza così ravvicinata che mi fece sussultare e finii per inciampare nei miei stessi piedi e cadere col culo per terra. Un terrore senza precedenti, che mai avrei pensato di sperimentare, men che meno di fronte al mio fratellino di quattordici anni, si impadronì del mio corpo. I denti iniziarono a battere forte tanto che per poco non mi morsi la lingua.
Qualcosa si mosse nell’ombra. Sbattevo senza sosta le palpebre, cercando di abituare gli occhi all’oscurità che mi circondava. Il cuore mi martellava nel petto come non mai. Non gridai, ma fu perché la mia voce sembrava essere rimasta imprigionata alla fine della gola.
Un’ombra più scura del buio che mi circondava mi passò davanti e, quando qualcosa di compatto e caldo mi si accostò, capii che Adam si era accoccolato vicino a me, come faceva sempre quando si svegliava la notte per colpa di un incubo.
Non era più l’essere in via di liquefazione che avevo stretto poco prima, in una notte che avrebbe dovuto essere serena, simile a tante altre. Era il mio fratellino, tranquillo, corporeo come al solito. La sua pelle era diventata appena più liscia, come se avesse uno strato impermeabile e viscido a proteggerla.
«La nonna lo sapeva sai? Mi aveva già portato qua, ogni anno, da quando ho compiuto undici anni. Mi ha fatto promettere di non dirtelo, Cade.»
Potevo riconoscere il tono cantilenante che assumeva la sua voce quando sapeva di aver fatto qualcosa di sbagliato. Lo stesso che aveva avuto quando mi aveva confessato di aver rotto la mia bici, o di aver marinato la scuola.
Il fatto che mettesse quelle stupidaggini sullo stesso piano dell’essere diventato un mostro rese la cosa più sopportabile anche per me, ma solo all’inizio. Quando in seguito portai la prima vittima, qualcuno che non aveva deciso di sacrificarsi spontaneamente come nonna Ruth, tutto divenne reale e spaventoso, un circolo senza fine che avrebbe per sempre accompagnato la mia esistenza.
«Perché non me l’ha mai detto?»
Detestai la nota rabbiosa nella mia voce, soprattutto perché lei era ancora lì con noi, malgrado fosse ormai morta, sentivo aleggiare flebile il suo odore: un misto di lavanda e rosmarino. Mi si strinse lo stomaco.
«Temeva che non avresti voluto stare con me, dopo…»
Ancora oggi, se ci ripenso, credo che forse quella fosse una via d’uscita. Una possibilità di scampo che consciamente o meno, Adam mi aveva voluto dare. Avrei potuto lasciarlo là, a marcire da solo, come mi stava suggerendo.
A morire da solo, così com’era morta nonna Ruth.
Non ricordo bene come lasciai la grotta, o come ritornai a casa, so solo che a un certo punto mi risvegliai nel mio letto. Ma non fu come nei film o nei libri, quando per un attimo ti sembra di aver fatto solo un brutto sogno. No, io mi risvegliai con la consapevolezza che la mia vita era diventata un baratro nero, dal quale non mi era più possibile risalire.
Almeno ero riuscito a farmi una doccia prima di addormentarmi. Pensieri positivi.
È buffo come l’ironia, a volte, sia l’unica cosa che ti tiene a galla in un mare di merda.
Adam mi aveva spiegato, come un adolescente era in grado di fare e quindi in modo pessimo e confuso, cos’avrei dovuto fare per “sfamarlo”.
Anche lui aveva virgolettato quella parola, sorridendo. Mi aveva fatto venire i brividi pensare a come tutta quella storia per lui fosse un gioco. Ma forse l’affrontava in quel modo proprio perché la nonna l’aveva preparato, come un piccolo soldato bambino.
Come avrei fatto ad accalappiare una persona e portarla alla scogliera?
Mi trascinai in un locale del centro. Il caldo afoso di inizio estate mi faceva appiccicare la maglia alla schiena sudata e i capelli sul collo madido di sudore. Continuavo a guardarmi intorno, non avevo più la consapevolezza di ciò che mi circondava. Le urla della nonna, la sensazione della pelle di Adam che mi si scioglieva sotto le dita… erano le uniche due cose su cui riuscivo a concentrarmi.
Fu più facile del previsto trovare qualcuno che mi seguisse. In un altro momento avrei gioito delle mie capacità di rimorchio, ma quella sera non riuscivo a pensare a niente, figurarsi a essere felice per qualcosa che in realtà avrebbe portato un altro alla morte.
«Allora, Cade, giusto?»
Mi voltai al suono nasale della voce del tizio che mi stava seguendo, il ragazzo di cui non ricordavo neanche il nome. Mi ero costretto a non prestare troppa attenzione al suo volto e, solo in quel momento, con la luce fioca della luna che filtrava dai rami degli alberi sopra la scogliera, mi accorgevo di quanto fosse carino. In una situazione normale ne sarei anche stato felice, ma ormai quelle cose non mi spettavano più. Come se poi avessero mai fatto davvero parte della mia vita. Non avevo neanche avuto il tempo per comprendere a pieno la mia sessualità, che già dovevo rinunciarci.
«Dimmi un po’, perché non possiamo appartarci qui e basta? Mi sembra abbastanza isolato.»
Sottolineò l’ultima parola con una significativa alzata delle sopracciglia e io gli sorrisi, veramente imbarazzato.
«Vedrai…» fu l’unica cosa che dissi, mentre iniziavo a scendere per raggiungere la spiaggia.
Mi si fece più vicino, standomi addosso, sfregò una mano sul mio sedere e poi sul fianco. Potevo sentire il calore della giornata intensificarsi grazie al suo tocco, ma non avrei mai ceduto, non per un po’ di interesse dimostrato da uno sconosciuto. Sapevo bene cosa poteva capitarmi se non fossi stato del tutto “puro”, come amava spesso sottolineare nonna Ruth. Sarei stato in pericolo.
Quando mettemmo piede dentro la grotta notai subito che sulla faccia del ragazzo, che fino a quel momento mi aveva seguito con impazienza, era comparso un velo di preoccupazione. Ma la mano che feci risalire sul suo braccio lo rassicurò quel tanto che servì per convincerlo a proseguire.
«Cade?»
La voce di Adam provenne ovattata dal fondo della grotta, dove sapevo che si riposava, nella porzione di sabbia che lasciava il posto all’acqua, creando una sorta di pozza naturale. L’ambiente favorevole per il tipo di malattia che l’aveva colpito.
Non appena il tipo che avevo rimorchiato sentì quel richiamo dal tono infantile, si scostò brusco. I suoi occhi parlavano chiaro: credeva che gli avrei proposto qualcosa di orribile.
Sarebbe stato quasi meglio. Se non altro per lui. Perché la sorte che l’attendeva era di gran lunga peggiore.
Fu un attimo, presi il teaser, che fino a quel momento avevo nascosto con cura in una delle tasche dei pantaloni, e lo colpii con la massima potenza. Forse fui proprio io a ucciderlo. Morto sul colpo.
Ringrazio solo che cadde a terra, con un tonfo ovattato per via della sabbia. Nessun grido di terrore accompagnò il secondo pasto di mio fratello.
La sagoma indistinta del Diavolo Nero sbucò fuori dall’ombra, un enorme ammasso gelatinoso che continuava a chiamarmi con la voce dolce e piagnucolosa che io conoscevo così bene. In quel momento mi chiesi se sarebbe mai cambiata, se si sarebbe fatta più adulta, come sarebbe dovuto accadere se Adam avesse avuto davanti a sé una vita normale.
Ero ancora perso in quei pensieri futili quando lui mi passò accanto, ignorandomi, pronunciava il mio nome in modo automatico, senza davvero riconoscermi, come se le due sillabe fossero diventate una specie di verso animale privo di un vero e proprio significato.
Il fetore che accompagnava quella massa informe ricordava un pesce putrescente lasciato marcire al sole da settimane. Mi avvolse, provocandomi conati che, per quanto ci provassi, non riuscii a contenere, quindi mi vomitai sulle scarpe e mi ritrovai a osservare i resti del poco che ero riuscito a mandar giù in quella sera maledetta.
Adam, mio fratello – ma lo era ancora, il mio piccolo Adam? – si richiuse sopra il corpo inerte della sua preda, inglobandolo e producendo suoni che l’orecchio umano non dovrebbe mai ascoltare.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo, e cercai di capire cosa provocasse tutti quegli scricchiolii molesti, gli schiocchi che lasciavano come un’eco bagnata. Solo così avrei potuto definirla, se mai il suono potesse essere tattile.
Per mia fortuna ero circondato dal buio, e la mia mente, a quel tempo ancora quasi del tutto integra, ha cancellato gran parte della scena dai ricordi. Ma non i rumori. Continuano a perseguitarmi ancora oggi, a distanza di quasi quindici anni.
E non smisi mai di sognarlo, per poi svegliarmi nel cuore della notte e in preda al panico. Steso in un letto matrimoniale troppo grande per una persona sola. Il letto di mia nonna Ruth, nella casa che un tempo aveva accolto me e mio fratello e che ci aveva resi felici.
Fu una mattina, proprio quindici anni dopo quella prima vittima, che tutto cambiò. Per la precisione la decima mattina di seguito, in un mese, in cui mi risvegliavo urlando. Decisi che quel tipo di esistenza per me sarebbe finita.
Smisi di andare da Adam.
I primi due giorni trascorsero in fretta. Non ricordavo più che vivere senza dover pensare a come avrei ucciso qualcuno, anche se indirettamente, fosse così bello. Mi diedi malato al lavoro e continuai a dormire, per la prima volta tranquillo, o per lo meno senza incubi. Era come se fossi caduto in coma.
Fu solo al quinto giorno, dopo un sogno davvero vivido, in cui nonna Ruth mi sgridava per aver abbandonato mio fratello, che iniziai ad andare nel panico.
Sapevo, ormai per esperienza diretta, che il ciclo digestivo del Diavolo Nero era di circa tre settimane, un mese se la preda era molto giovane. Non importava la stazza, quanto invece che il corpo fosse in buona salute.
Molte sparizioni ripetute avrebbero allertato le autorità, facendole pensare a un qualcosa di schematico. Era una fortuna che Adam non dovesse mangiare troppo o troppo spesso in un breve lasso di tempo. Mi dava modo di girare per il Paese e trovare le mie vittime, senza destare sospetti nelle polizie locali.
In poco meno di due anni avevo debellato il problema dei senzatetto del mio Stato e nessuno si era mai lamentato della scomparsa di uno squatter; li credevano solo annegati o morti assiderati. Nessuno, nemmeno la Chiesa, aveva mai voluto fare un funerale a un barbone. Svanivano e basta, e io ero la causa della loro sparizione, e l’unico che avrebbe mai potuto incastrarmi era colui che beneficiava maggiormente di questo mio servizio.
Con quel quinto giorno eravamo quasi al mese prestabilito, e l’ultimo pasto era stata una prostituta affetta, con tutta probabilità, da almeno un paio di malattie veneree, qualcuno che il Diavolo Nero avrebbe digerito in fretta. Adam avrebbe iniziato a patire la fame? A lamentarsi? Alla fine, sarebbe morto?
Il settimo giorno mi convinsi che dovevo fare ancora un’ultima cosa, prima di potermi dire soddisfatto del mio taglio netto col Diavolo Nero e con la maledizione di famiglia.
Decisi che era il momento giusto per lasciarmi alle spalle la vita casta e pura che avevo condotto fino a quel momento, neanche fossi un prete cattolico.
Fu una notte strana.
Ma una cosa è certa: superati i trent’anni, cercare di trovare qualcuno che non ti rida in faccia quando gli spieghi che sei ancora vergine è praticamente impossibile.
La mia fu una prima volta orrenda. Dolorosa, senza amore.
Nonostante mi avvicinassi ai trentacinque anni, la mia visione del mondo era rimasta quella distorta di un diciottenne. Dalla notte in cui mia nonna si era sacrificata, lasciandomi con un compito molto più grande di me, era come se mi fossi congelato. Avevo avuto rapporti professionali, rapporti umani limitati, certo, ma non li avevo mai voluti approfondire per paura che poi qualcosa potesse rivoltarmisi contro. O che lo facesse il Diavolo Nero, divorandomi.
E nonostante avessi osservato la morte molte volte, guardando Adam mentre inglobava le sue vittime, continuavo a temerla. Spesso avevo sognato che, preso da una fame senza controllo, mio fratello mi avrebbe divorato.
Il mio Adam, che non mi parlava più, che neanche sembrava più un vero essere umano, con gli occhi scuri spalancati, fissi in un’espressione senza vita.
Aveva smesso molti anni prima perfino di pronunciare il mio nome.
Col sopraggiungere del decimo giorno qualcosa mutò in via definitiva.
Mi svegliai di nuovo nel mezzo della notte. Quella volta, però, non per gli incubi, ma perché provavo una fame terribile. Sembrava che il mio stomaco si stesse aggrovigliando su se stesso, come se stesse provando ad autofagocitarsi.
Non mi ero mai sentito così. Era qualcosa di talmente potente da farmi quasi svenire.
Dopo aver svuotato invano il frigo, chiusi gli occhi e provai a respirare in modo calmo e regolare, cercando di dare una spiegazione a ciò che mi stava succedendo. Una spiegazione che però tardava ad arrivare, o meglio, una spiegazione che mi rifiutavo di accettare.
Nel profondo del mio essere sapevo bene il perché di quel tormento.
Non era certo il senso di colpa nei confronti di mio fratello, anzi, nonostante non vedessi Adam da così tanti giorni, non mi mancava. Come se poi un essere immondo potesse mai davvero mancarmi. Non ero nemmeno certo di considerarlo più davvero un fratello.
No. Non era quello, né l’ansia. Era, bensì, un legame che non avevo scelto ma che mi era stato imposto. Chissà se qualcun altro della mia famiglia, nel corso dei secoli, aveva mai affrontato lo stesso calvario che era toccato a me. Se qualcuno si era lasciato morire pur di non continuare a compiere quelle atrocità.
Forse ero il primo. Magari sarei stato l’ultimo.
Lo speravo, perché la fame che sentivo non era la mia, ma quella del Diavolo Nero.
In qualche modo il suo istinto di conservazione era così radicato, che il suo richiamo mi raggiungeva con prepotenza, nonostante la distanza.
Come arrivai alla grotta non saprei spiegarlo. Forse con la macchina, anzi, è piuttosto ovvio che fossi arrivato in quel modo, come altrimenti?
Però non ricordavo di averla presa, messa in moto, non ricordavo la strada. Non ricordavo niente. Anche se alla fine ero lì, con le onde che mugghiavano in lontananza, infrangendosi sulla scogliera, e la grotta che si apriva di fronte a me, scura. E il lamento di Adam che si faceva più alto ogni momento che passava. Per un attimo mi domandai come mai nessuno l’avesse sentito. Come mai nessuno fosse andato a controllare, cadendo nella trappola che era la tana del Diavolo Nero.
Ma poi la fame che provavo si fece sempre più forte, un intrecciarsi di viscere che chiedevano solamente di essere consumate o nutrite, e io mi ritrovai dentro, avvolto dall’oscurità. Mi ero mosso senza nemmeno accorgermene, proprio come avevo fatto nel guidare fin lì. Era accaduto e basta, e il tempo sembrava essersi dilatato: come un battito di ciglia durato minuti, invece che poche frazioni di secondo.
Adesso ero lì e sapevo bene che non ne sarei mai uscito.
I lamenti cessarono quando il Diavolo Nero si accorse della mia presenza. Sentivo il lento strisciare della creatura, che si avvicinava, come se le sue membra fossero troppo gonfie e macilente per sollevarsi dal terreno e permettergli di camminare.
Schiocchi macabri si facevano sempre più vicini, e solo quando lo intravidi, un corpo enorme, bulboso, senza anima, capii che sarebbe stata l’ultima volta che vedevo mio fratello.
Non possedevo più l’elemento chiave che mi aveva sempre garantito la sopravvivenza: non ero più puro.
Mi avvicinai di mia spontanea volontà, muovendo i pochi passi che ci separavano e accostando una mano a ciò che un tempo era stato il volto del mio dolce fratellino, ingenuo e amante delle storie dell’orrore.
La pelle che toccai era fredda, viscida.
Fu in quel momento che compresi una volta per tutte che il meccanismo che mi aveva portato lì era solo l’ennesimo espediente della maledizione per perpetrarsi nella nostra famiglia. Ma quella volta sarebbe stata sul serio la fine del morbo, perché rimanevamo solo io e Adam.
Un lungo suono cadenzato, come una specie di ronzio di sottofondo, si amplificò quando la mia mano toccò la superficie che un tempo era stata pelle, ma che adesso era solo una specie di gelatina molto resistente. Una guaina che conteneva un orrore che non era più Adam.
Chiusi gli occhi e mi lasciai andare.
La sensazione di venire inglobato all’interno di qualcosa di mostruoso mi pervase fin dentro le viscere, e il terrore, troppo forte per poterlo contenere, si fece strada dallo stomaco fino alle labbra, per poi liberarsi in un grido senza fine.
Per un attimo quel grido mi parve simile a quelli di ogni vittima che ero sempre stato costretto ad ascoltare mentre sfamavo il Diavolo Nero. Un grido estraneo, senza tempo.
Tutte le volte, nella mia mente, le urla di nonna Ruth si erano sovrapposte a quelle delle altre vittime, facendomi rivivere la prima sera di orrore. Adesso, invece, le grida erano solo le mie.
Quando la parte inferiore delle mie gambe si staccò e scomparve, inglobata dalle viscere della creatura, iniziai a piangere e a vomitare. Fu solo per quello che mi zittii e un macabro gorgogliare si sostituì alle urla.
Cercai di rimanere cosciente più a lungo possibile, nonostante l’agonia lancinante del venire scomposto pezzo dopo pezzo.
Volevo che facesse male, volevo che tutta la sofferenza provata fosse una punizione. Era giusto così.
Il suono, proveniente dall’interno del corpo di Adam, divenne sempre più forte e intenso.
Raccapricciante sarebbe stata la parola giusta.
Io ormai provavo solo dolore. Dolore, disperazione e rimorsi.
«Mi dispiace fratellino, mi dispiace,» furono le ultime parole che pronunciai, poi il nulla.
***
Per un momento, un piccolo momento, forse un solo istante, riuscii di nuovo a essere me stesso. Quel tanto che mi servì per capire. E piansi, forse non più lacrime, forse solo uno strano liquido semitrasparente che poi quel corpo che tratteneva la mia coscienza avrebbe riassorbito.
Ma le sentii, le parole di Cade; lui era dispiaciuto, ma ero stato io.
Ero stato io che l’avevo ucciso… Però ero pronto, la nonna me l’aveva sempre detto che, alla fine, saremmo riusciti a ricongiungerci, per sempre.
«Finalmente siamo di nuovo tutti e tre insieme.»
Poi fu di nuovo l’oblio.
Racconto di Marika Grosso
Illustrazione di Schesta (Schesta-Digital Artist)