Mi è sempre piaciuto il rumore dei suoi occhi.

Quello sfrigolare interno che scuoteva il mio essere come fosse un manichino attraversato da una corrente ad alto voltaggio. Restavo lì ad ascoltare quel rumore perdendomici dentro. Ogni tanto succedeva quando eravamo in compagnia di amici, e allora mi estraniavo da qualunque conversazione sentissi attorno a me. Il ristorante, pub, bar dove eravamo diventava un ammasso di colori confusi che si sovrapponevano.
Ho sempre pensato che io non vivessi davvero, che lo facessi solo in modo superficiale.

Accanto a lui brillavo di una luce diversa. Forse esistevo un po’ di più, anche se non così tanto come avrei voluto. Perché era sempre lui quello che parlava, che rideva, che attirava l’attenzione su di sé senza che facesse niente. I suoi occhi erano tutto. C’era l’universo, lì dentro.

Era stato l’unico universo in grado di catturarmi davvero, di far sì che il mio cervello si congelasse e restasse intrappolato in quella dimensione parallela fatta di parole e cuori che battevano all’unisono. Lentamente tutto si era avvolto su sé stesso, in una spirale di qualcosa che non sapevo bene come definire ma che non assomigliava affatto alla giostra rossa di emozioni su cui ero salita prima.

Il tempo si era dilatato. I suoi pensieri erano diventati neri col passare dei mesi, io lo sentivo. Lo
sento tuttora, anche se non esisto più. Anche se sono un involucro vuoto.

Anche se sono inconsistente e quando lo guardo non vedo la persona che vedevo prima.
È un altro, anche se ha la sua faccia. Ed è diverso. A volte mi chiedo diverso rispetto a cosa.
Diverso rispetto a quello che mi parlava dolcemente, diverso rispetto alla persona che diventava a
volte?
Una persona che conoscevo e non conoscevo allo stesso tempo.

Era urla che frammentavano la terra, un terremoto implacabile, suoni che aumentavano il battito cardiaco e mi facevano sentire polvere. Avverto i suoi passi che si aggirano per casa, quando rientra. Mi nascondo, perché non posso fare altrimenti.

Se non mi nascondo tutti capiranno la sua vera natura.

E lui non vuole questo, vuole continuare a indossare la maschera che indossa così spesso ma di cui solo io conosco l’esistenza. Lo so, perché so che resterò qui per sempre. Non sono capace di andarmene.

Non sono capace di essere la persona che ero prima, da quando lei è entrata nella mia vita.

Ricordi in modo nitido quando l’ho vista in metro, i capelli di quel colore a metà fra il biondo e il rosso che era diventato subito droga.

La sua voce melodiosa. Il suo modo di parlare calmo, come se fosse immune alla fretta degli altri.
È in casa con me, ma non riesco più ad avvertire la sua presenza prepotente come prima.

Non avviluppa la mia vita con quella passione che era solo sua, col suo modo unico di vedere le cose.
Non riesco a resistere a lungo in situazioni che mi fanno sentire oppresso, ma con lei è diverso.

È sempre stato tutto diverso, sin dal momento in cui l’ho conosciuta. In qualche modo ho subito
capito che avrebbe lasciato un segno indelebile, dentro di me.
È successo esattamente questo.
Ma non nel modo che avevo previsto.
C’è qualcosa che non voglio dire ad alta voce quando parlo di lei. Qualcosa di nascosto, come un
mostro che con i suoi tentacoli mi stringe a sé senza che nessuno lo veda.

Nessuno sa della sua esistenza, solo io che mi sento soffocato ogni giorno di più – perché ogni giorno sono costretto ad ascoltare la sensazione viscida di quei tentacoli che mi mangiano, avvinghiandosi alla mia pelle come lacci emostatici. Fanno diventare il corpo livido, in procinto di esplodere in fuochi d’artificio fatti di sangue e pelle. Un giorno succederà, forse. Un giorno esploderò e la verità salterà fuori senza che io lo voglia.
Non ha più senso restare insieme a lei, ancorato al ricordo di quello che era prima.
Non c’è più niente, adesso, di quelle immagini e quelle sensazioni.

Solo fantasmi che aleggiano nella mia testa. Mi aggrappo a quei fantasmi perché un tempo stavo bene e ora invece è cambiato tutto.

Lui non è più stato lo stesso, da quella notte.

La notte in cui tutto ha preso un colore diverso e niente ha avuto più lo stesso sapore. Adesso non riesco a distinguere le cose le une dalle altre, tutto ha la stessa consistenza. Nel naso ho costantemente l’odore del legno, logico effetto di quello che è successo quella sera.
È passato tanto tempo, da allora.

A volte sento ancora l’odore del legno, anche quando non ha nessun senso che io lo avverta
insinuarsi nelle mie narici.

Come un promemoria di quella notte. Odore di legno, un ronzio nelle orecchie. Mi capita anche in momenti in cui sono tranquillo e sereno, un allarme interno che non si spegne. Come per ricordarmi che quegli istanti sono esistiti davvero – forse.

A lungo mi sono chiesto se esistessero nella realtà o solo nella mia testa.

Ma sono talmente concreti che posso quasi tenerli tra le dita, anche se non hanno contorni. È una sensazione che non so ben definire, resta acquattata in un angolo per un po’ di tempo. La mia vita scorre come ha sempre fatto, amici, palestra, lei. È tutto tranquillo. Come ho sempre voluto che fosse, senza troppe increspature o scossoni.
Ma ogni tanto quell’odore di legno si fa sentire e frammenti reali di qualcosa che la mia mente
rifiuta tornano.
Di solito succede di notte, e allora i miei occhi restano spalancati nell’insonnia e so che non posso
dire di tutto questo a nessuno.
Ma succede anche in altri momenti. Nell’ultimo periodo più spesso.

Fa cose normali adesso.

Si prepara una cena veloce, uova latte prosciutto e cheddar. Sta facendo un’omelette al formaggio, i suoi gesti sono spontanei e imperturbabili, come quando nella nostra coppia c’era ancora vita. Lo guardo, ascolto i rumori che fa con il suo gesticolare e il suo fare le stesse cose che faceva con me.
Prima che tutto cambiasse.
Lo sfrigolare del cibo nella padella mi fa ricordare dell’odore che quell’omelette avrebbe prodotto
tempo prima. Adesso è un’idea che galleggia nella mia testa e nient’altro.

Lei non doveva esistere perché era perfetta e io la perfezione non l’ho mai tollerata.

Ci ho pensato tanto prima di cancellarla, ma alla fine l’ho fatto.
Ci ritorno sopra con la mente, a quel momento. Alla sera in cui le ho fatto bere dei sedativi e l’ho
immobilizzata e ho inciso la sua carne con un coltello. Lei non capiva nulla, le sue orbite
ondeggiavano pigre nei bulbi oculari.

Le iridi erano due cerchi di ghiaccio intorno al chiodo nero della pupilla, ma non si vedevano bene perché erano trasportate dalla corrente dei suoi pensieri annebbiati. Emetteva un suono sordo e sibilante allo stesso tempo. Credevo mi avrebbe spezzato il cuore sentirla così, invece la voglia della sua carne era più forte di tutto il resto.
Il sangue mi ha sempre fatto impressione, ma la macchia scura che si allargava a vista d’occhio sul
pavimento sembrava non scalfirmi.

Continuavo a passare la lama fredda e lucente sulla sua pelle bianca, strappando i tessuti come facevo quando dovevo intagliare il cuoio nel mio laboratorio per fabbricare le maschere che la mia compagnia teatrale usava per gli spettacoli.
Lei sarebbe stata la mia maschera preferita, la mia creazione più bella.
Per un attimo i miei pensieri erano dondolati su quell’altalena di contraddizioni: divorarla o
lasciarla così?

Entrambe le opzioni mi erano sembrate allettanti. La sua coscia strappata, i tessuti esposti erano invitanti. Se possibile era ancora più bella così che com’era prima, pallida, intatta e infelice.
Perché io me ne ero reso conto che era infelice.
Anche prima i suoi occhi galleggiavano nel nulla di pensieri opprimenti.
Pensieri di cui però non mi parlava mai.
Forse se l’avessi mangiata quei pensieri sarebbero entrati dentro di me.

Mangia la sua omelette ma i suoi occhi sono piantati nel vuoto.

Le ciglia sbattono ogni tanto, in un gesto automatico. Non è lucido, riconosco ancora i suoi lineamenti quando entra in quel tornado di pensieri che a volte lo prende e lo porta giù con sé.
Non sempre riesce a venirne fuori.
Quella volta non era successo, per esempio.
L’ultima cosa che avevo visto era stata lui che stringeva in mano un pezzo della mia stessa coscia.
Grondava sangue in un modo che non poteva essere reale.

La nebbia mi avvolgeva ma non so se fosse nebbia vera o solo il mio cervello che voleva occultarmi quell’immagine.

Il dolore era un dolore bizzarro.

Mi sono sempre chiesta cosa si provasse a venire frammentati e strappati. In quel momento ho capito che avere un pezzo del tuo corpo aperto da un coltello dà una sensazione di sdoppiamento, di strano senso di irrealtà.
Volevo parlare ma non trovavo la bocca.

Mi aveva sedata e lo avevo capito troppo tardi.
Il sudore freddo che, come un velo, mi copriva ogni centimetro di pelle però lo sentivo bene.

Si infilava umido nei capelli, avvolgeva la fronte. Imperlava le cosce stesse, anche se in quel momento
non potevano più definirsi cosce.
Ero carne da macello.
Dopo però sarebbe stato peggio.

L’omelette mi disgusta adesso.
È arrivato uno di quei momenti in cui ripenso alla sera in cui l’ho assaggiata e non me lo tolgo dalla
testa.

Resta incollato lì, così come ha fatto il suo sapore al mio palato per settimane.
La sua carne era più tenera di qualunque altra cosa io avessi mai mangiato.
Ho continuato a tagliare pezzi di lei per tutta quella sera.

La bocca, le orecchie. Lei continuava a emettere quel lamento, dopo un po’ si era fatto più acuto. L’effetto del sedativo stava svanendo lentamente, dovevo farglielo bere ancora.
La mia mente si perde lì.
In quella frazione di tempo – potevano essere minuti, ore, giorni interi, forse anche il tempo stesso
si stava ribellando a me e al mio modo di calcolarlo – avevo realizzato che continuare a sentire quel
sapore era più importante di qualunque altra cosa.

Le mie orecchie erano come piene di ovatta, ero immune a qualunque stimolo uditivo.
Volevo solo la sua carne.
La vorrei anche ora.
Un’omelette fatta con la carne di lei.

Non è riuscito a separarsi da me, dopo quella notte.

Anche quando sono diventata un involucro vuoto, l’ho visto abbracciare il mio corpo deturpato, accarezzarlo per poi rosicchiarlo subito dopo.
Era un misto di amore e morbosità. Di denti che picchiettavano sulle ossa nel raschiare via gli ultimi
frammenti di carne.

Era diventato un lupo, un animale selvatico che dilania la preda fino a che non
rimane più niente.
Io ero ancora viva. Lo percepivo, anche se annebbiata dal sedativo.
Ho pensato che non avrei voluto sopravvivere.
Invece l’ho fatto per un po’ di tempo, anche quando mi ha chiusa in un armadio e ho sentito l’odore
del legno.

Mi manca quel sapore.

Non lo lascerò mai.

Quelle orbite cave mi guardano.

Non ci riesco, devo sapere che lei è ancora lì, in qualche modo. In quel posto che solo io conosco,
dove nessuno può trovarla.

Un posto che ho costruito apposta per lei.
L’omelette si fredderà, ma guardare quelle piccole ossa è più importante.
L’ho messa in un armadio, l’odore di legno si fonde con quello di morte. Non lo cambierei per nulla
al mondo.
C’è una ragazza che ho conosciuto in palestra, ultimamente.

È carina, mi piace, sa che sono libero in questo momento. L’ho portata a casa qualche volta. Ma non so se approfondirò il rapporto, perché lei è troppo importante e io non voglio distaccarmene.

Sono felice che sia ancora qui con me. Che non abbia la possibilità di rifarsi una vita come fanno
tutti.

La vita di tutti va avanti, la sua no.
La sua ruota attorno a questi resti che lo guardano dall’angolo di una stanza nascosta, in fondo a un
armadio, trofeo di quella sera in cui qualcosa è successo e ha cambiato per sempre il nostro
rapporto.

La follia gli scava il viso giorno dopo giorno, durante la notte lui digrigna i denti e io lo sento, vuole ancora carne ma non può averla. Così si nutre del ricordo, si sente al sicuro a sapere che io sono nella stanza nascosta nel muro, in un armadio.
Io so che non ci entrerà mai più nessuno qui. Non stabilmente.
Perché ci sono io.
È bello avere potere sugli altri.

di Sara Holst

Foto Footsteps

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