«Prima o poi dovrai alzarti da lì» disse la voce sotto al letto.
Roca, profonda, disumana.
Proprio la voce che i bambini immaginano sia quella del loro mostro sotto al letto. O quello dentro all’armadio. O quello che si nasconde negli angoli bui, pronto a ghermire, attaccare, mordere, dilaniare. O semplicemente a spaventare, per poi tornare nel proprio anfratto d’ombra.
Perché si sa: i mostri si nutrono di paura, grida, sangue e carne.
Di nuovo la voce: «Non puoi stare lì per sempre. Rimarrò qui ad aspettarti, lo sai?»
Ma lei non si mosse, immobile nel suo bozzolo di lenzuola. Non osava spostarsi da lì, non si azzardava neanche a parlare.
«Lo so che mi senti. Lo so che mi stai ascoltando».
La ignorò, come se nessuno avesse parlato.
Lì avvolta tra le lenzuola aveva caldo, un caldo insopportabile.
Fuori il sole doveva essere intenso, minaccioso. Prima l’aveva visto dalle fessure della finestra chiusa. Una luce bianca, brillante, meravigliosa.
Avrebbe voluto avere il coraggio di balzare giù da quel maledetto letto, correre fino alla finestra e spalancare gli scuri.
Perché, come è risaputo, esistono regole non scritte ma conosciute da tutti: la luce ha il potere di far sparire qualsiasi mostro che si annida nelle tenebre e le coperte proteggono da ogni male, rendono invisibili, intoccabili, al sicuro, come una sorta di ritorno all’utero.
Se solo fosse riuscita ad arrivare alla finestra, sarebbe finito tutto. Ma sapeva che non l’avrebbe fatto.
Se quel mostro l’avesse presa, cosa sarebbe successo?
«Da quanto sei lì? Quante ore sono passate? Ne hai tenuto il conto?» le chiese.
Lei sussultò, lasciandosi sfuggire un singulto. Non gli rispose.
Chissà dove se ne andavano i mostri, una volta morti. C’era un aldilà anche per loro o smettevano semplicemente di esistere? Sfumavano nel buio? Tornavano ad essere assenza di luce?
«Non far finta che io non esista, lo sai che sono qui. E lo sai anche tu che non potrai resistere a lungo. Avrai fame, sete…»
Questa volta, ciò che disse il mostro provocò in lei una reazione diversa, più forte.
Fame. Al solo udire quella parola, avvertì un crampo al ventre.
Sì che ne aveva. Fame, sete, soprattutto fame.
«Oh, ecco. Ecco. Sento la tua pancia urlare. Stai soffrendo, non è vero? Sì, posso udire le grida della tua fame, piccola mia. E credimi, ti capisco. Anche io ho fame, so cosa significa».
Lei tremò. Tremò incontrollabilmente al pensiero di tutto quel sangue.
Sangue, sangue, sangue…
Era scorso dappertutto: sulle pareti, tra le fughe del pavimento, sopra ogni superficie.
Rosso. Il rosso era ovunque.
Un susseguirsi di immagini e suoni si fece strada dietro ai suoi occhi chiusi.
La luna piena. Grida di terrore, corse furibonde, il mostro che appariva. Aveva mani nere e dita come artigli, che dilaniavano, si piantavano nella carne, strappandola. La schiena del mostro piegata in un arco innaturale, la pelle che si lacerava per lasciar spuntare grandi ali oscure. Ali d’ombra e d’argento. Il mostro predatore che pretendeva il sangue delle prede e che se lo prendeva.
Corpi senza vita.
Erano morti. In quella casa erano tutti morti, tranne lei. Fuori splendeva il sole, ma all’interno di quelle quattro mura regnavano ancora le forze della notte.
Strizzò le palpebre e si strinse ancora di più tra le lenzuola per scacciare quei pensieri. Il cuore le batteva veloce.
La voce parlò ancora: «Devi mangiare».
Una mano dalle lunghissime dita spuntò da sotto il letto. Tastò alla cieca e trovò la sua caviglia, proprio come accade nei peggiori incubi.
Le dita si chiusero attorno alle sue ossa e il mostro tirò, tirò e tirò.
E lei gridò e scalciò e si ribellò. «Lasciami! Lasciami, non voglio!»
«Non vuoi?»
«No, non voglio!»
«Non vuoi cosa?»
«Non voglio mangiarli!»
Qualche istante di silenzio. La mano del mostro allentò la presa, lasciandola libera, e lei si raggomitolò di nuovo nel suo bozzolo di stoffa, come se pensasse veramente che quelle lenzuola l’avrebbero protetta.
Infine, l’aveva ammesso. L’aveva detto: non voglio mangiarli.
Mangiare chi? Mangiare loro. Mangiare quelli che aveva ucciso.
Perché anche lei era un mostro. I mostri in quella stanza erano due: uno sopra e uno sotto al letto. E lei poteva far finta di niente, fingere di essere qualcos’altro, ma alla fine la verità sarebbe emersa, che le piacesse o no.
E loro, le sue vittime, gli abitanti di quella casa, erano cibo, nient’altro che cibo. Cibo che le aveva sorriso, parlato e che l’aveva toccata. Che aveva giocato con lei. Ma pur sempre cibo.
Quella fame che aveva ignorato così ostinatamente aveva preso il sopravvento, fino a farle perdere il controllo.
Sangue, sangue, sangue…
Come dimenticare il tempo passato con loro? Come poteva fingere che non fosse successo? Era doloroso, tanto che avrebbe voluto svanire.
Ecco perché avrebbe voluto aprire quella finestra: per dissolversi. Morire.
Raggi solari che come spade luminose avrebbero attraversato il suo corpo. Un’esecuzione.
La verità che stava affrontando le aveva tolto il terreno da sotto i piedi, e poi erano crollate le pareti e il soffitto e tutto il resto.
Per lei, quelle lenzuola avvolte attorno al suo corpo erano più di una semplice protezione dal mondo. Erano molto, molto di più. In un posto recondito della sua mente, erano la crisalide nella quale avrebbe voluto tornare, il passato dal quale non avrebbe voluto staccarsi. Non evolversi mai. Continuare a sognare e a cullarsi in quell’innocenza.
Invece, era successo: era cresciuta e non aveva potuto far nulla per impedirlo.
Era uscita dalla crisalide. Con tutte le sue conseguenze.
«Non avevo mai incontrato un mostro come te» le disse piano la voce sotto al letto. «Un mostro che prova pietà per le sue vittime. Gli esseri umani sono le nostre prede, ciò di cui ci nutriamo… e ciò da cui nasciamo. È grazie alla loro paura che esistiamo. Se non ne avessero, cesseremmo di esistere, per questo dobbiamo continuare a fomentarle e poi a cibarcene».
«Non volevo ucciderli» insisté lei, in un sussurro che sapeva di follia.
«Ma l’hai fatto. Hai risposto al richiamo del tuo istinto. Adesso devi onorare le tue prede: hai divorato la loro paura, adesso tocca alla carne».
«No».
«Non senti l’odore? Lo so che lo senti, non mentire. Te l’ho detto: la tua fame grida e se non mangi morirai».
Se solo avesse saputo piangere, l’avrebbe fatto. Si sarebbe potuta liberare di quel tormento, almeno in parte. Ma non poteva farlo, i suoi occhi non erano fatti per piangere, e lei non era fatta per soffrire. Era innaturale, eppure stava succedendo e la sua sofferenza non trovava sfogo.
Nella sua testa continuavano a vorticare i ricordi dei giorni passati, come un nugolo di fantasmi.
Non sapeva come fosse nata, da quale incubo fosse uscita. Aveva cominciato a esistere, prendendo vita e poi forma e poi anima e poi sangue.
E basta.
Si era ritrovata in quella casa, altro non ricordava.
Così, aveva cominciato ad osservare le vite dei membri di quella famiglia. L’aveva fatto per tanto, tanto tempo, nascosta negli angoli bui, in silenzio. Aveva esplorato la loro casa, imparando a conoscerla alla perfezione, fino a sentirla propria.
Fino a desiderare di essere parte di quella famiglia.
Una notte aveva deciso di svegliare uno dei piccoli abitanti della casa. Voleva giocare con lui. Impossibile resistere a quella tentazione.
Il bambino si chiamava Cedric e non ci aveva messo molto ad abituarsi all’oscura presenza di lei. Dopo un primo momento di paura, aveva accettato la sua esistenza, anzi, si era dimostrato persino curioso. Le aveva chiesto come avesse fatto ad entrare in casa loro e da dove provenisse, ma lei non aveva voluto rispondere a nessuna delle due domande. Però, gli aveva rivelato quanto avrebbe voluto giocare con lui al calore della luce, e che avrebbe voluto avere una pelle bianca proprio come la sua, che i raggi solari non avrebbero potuto bruciare.
Cedric aveva promesso che avrebbe mantenuto il segreto: non avrebbe rivelato a nessuno di lei, tanto nessuno gli avrebbe creduto. Nessuno, a parte la sua sorellina, Darlene.
Cedric l’aveva convinta ad avvicinarsi a lei, assicurandole che non le avrebbe fatto alcun male.
Ma Dee, come la chiamava Cedric, aveva paura. Non si fidava di lei, non voleva avere niente a che fare con una creatura che spariva nel nulla, perdeva consistenza, che sapeva camminare sul soffitto e strisciare sui muri. Perché solo negli incubi accadono certe cose.
Quanto aveva avuto ragione, la piccola Dee.
Ma per lei, il mostro, era stato splendido illudersi di essere una di loro, stare in compagnia dei bambini, nascondersi sotto al letto ad ascoltare la voce della loro mamma che leggeva le favole. Momenti preziosi. Quella voce dolce le faceva provare un calore al centro del petto. Ma anche un’immensa tristezza: lei non avrebbe mai avuto una madre, non una come quella.
Poi, all’improvviso, era arrivata la fame, il vuoto del ventre affamato. Che le aveva tolto il senno. Che l’aveva resa una bestia della notte.
Era accaduto tutto in pochi istanti. Nemmeno il tempo di pensare. Il suo istinto prevaricatore e la sua essenza di predatrice avevano preso il sopravvento.
Li aveva uccisi tutti.
Tutti e quattro: la madre, il padre, i due figli.
«Ma io non volevo farlo» parlò a sé stessa, più che al mostro sotto al letto. «Non volevo farlo, non volevo farlo…»
«Ma è successo. Adesso devi onorarli, sai cosa devi fare» le rispose lui.
«No, no, no…»
«Non senti l’odore? Lo so che lo senti, non mentire. Te l’ho detto: la tua fame grida e se non mangi morirai» l’avvertì il mostro. La sua grande, orrenda mano le accarezzò la schiena, rassicurandola. Lei lo lasciò fare, fingendo che quella fosse la mano benevola di una madre, proprio come quella della donna che aveva ucciso poche ore prima. «Non è colpa tua. Hai fatto solo quello che la natura ci impone di fare. È lei che ci ha predisposti in questo modo, l’essere più crudele che agisce in virtù di una gerarchia feroce. È il principio che governa l’equilibrio tra predatore e preda».
Non era colpa sua? Non lo era? Erano ore che cercava di ripeterselo, il punto era che non ci avrebbe mai creduto, conscia del fatto che c’era sempre stata una scelta: vivere o morire.
Morire per lasciarli in vita. Chiudersi la bocca per sempre e morire di stenti. Svanire al sole.
O vivere affondando i denti al collo delle prede.
La verità era che lei voleva vivere.
Ecco perché era ancora lì, nell’immobilità e nella negazione. Nella crisalide.
Adesso si trattava solo di convivere con la consapevolezza di dover uccidere e di nascondersi per sopravvivere.
Come se le avesse letto nel pensiero, la voce si fece sentire: «Esci da quel bozzolo, non celare il tuo nuovo corpo. È vergognoso, peccaminoso nei confronti della tua stessa specie».
Le enormi dita ghermirono la stoffa delle lenzuola che lo avvolgevano, strappandole.
Le sue ali si spiegarono.
Ali di nere trasparenze e scintillante argento, grandi e magnifiche, come quelle di un gigantesco papilio machaon.
Le aveva tenute costrette contro la schiena fino a quel momento.
E ora che era fuori dalla crisalide, quell’immensa apertura alare le fece capire quanto possente e libera fosse.
L’evoluzione le aveva conferito un nuovo vigore. Un cuore fiero e pulsante. Aveva oscurità nella sua anima, e nera linfa vitale nelle sue vene. Era una creatura fatta per compiere atti di crudele bellezza.
Pensò che il mostro sotto al letto avesse ragione, ammise a sé stessa che avrebbe dovuto dargli ascolto sin da subito.
La sua crisalide di stoffa ora era a terra, a brandelli, come il suo passato e la sua breve infanzia. Ma quella parte di lei, l’involucro, non era morta, si era semplicemente trasformata, assumendo una nuova forma.
Si librò in aria, facendola vibrare con lenti battiti delle sue ali. Tra quei tremori, si disperdeva il suo dolore.
«Ferma le grida» disse il mostro. Un sussurro che scosse ogni singola particella. «Saziati».
«Devo farlo» sentenziò lei. «Devo onorare la fame».
«È così. È quello che facciamo: diamo voce alla paura e la innalziamo».
*
Quattro corpi a terra, disposti come opere d’arte.
La pelle della schiena scuoiata a formare due ali, come macabre aquile di sangue. I ventri aperti privati di quanto più prezioso.
Nessuno lo avrebbe mai saputo, né compreso, ma per la creatura che aveva creato tanto orrore, quelle persone non erano morte: erano state trasformate e quella era la loro nuova forma.
D’ora in poi, le avrebbe tenute dentro di lei, più consistenti di un ricordo. E per sempre.
di Roberta Battini
Foto Footsteps