Quando torna, trova davanti casa il marito che spacca la legna. Lui si accorge che è tornata, ma non
la saluta, né le rivolge alcun gesto, niente che faccia intendere che si è accorto di lei. Continua a spaccare la legna, sollevando l’accetta oltre la propria testa; si ferma soltanto quando è lei ad andargli vicino.
«Allora? Che cosa ha detto?» le domanda, passandosi una mano sulla fronte e poi sulla barba.
«C’è un altro modo.»
«Quale?»
Lei apre la sacca che ha con sé e gli fa vedere cosa c’è dentro. Lui aggrotta la fronte, ma poco dopo
annuisce. Si sono già detti quello che dovevano dirsi, entrambi si voltano a guardare il figlioletto di
tre anni che gioca (sta uccidendo delle formiche con un rametto). Il marito allunga una mano verso
la moglie, lei d’istinto fa un brusco scatto (insacca il collo fra le spalle), ma si distende un po’ quando capisce che è soltanto una carezza.
«Appena farai ritorno ci riproveremo.»
Lui prende un altro ceppo e lo mette in posizione, afferra il manico dell’accetta e lancia un lungo
sguardo alla moglie. Lei si allontana di qualche passo e così lui può riprendere da dove si è interrotto. La donna guarda il figlio, che sta rannicchiato con lo sguardo puntato a terra, le ginocchia appuntite, le ossa della schiena che sembrano voler perforare la pelle, e per un momento prova una sensazione di vuoto. Si avvicina e si siede sui talloni proprio davanti a lui. Cerca di dirgli qualcosa, cambiando ogni volta i toni per vedere se ce n’è uno adatto per poter comunicare con lui, ma ogni volta le parole sembrano rimbalzare in un luogo che lui non riesce a raggiungere.
«Conosco un posto dove vanno le farfalle.»
Lui muove piano il collo, in modo da voltare il viso verso di lei, anche se non la guarda negli occhi.
«Farfalle?»
«Vuoi andare a vederle?»
«Sì, mi piacciono le farfalle.»
«Vuoi andare a vederle, con me?»
Una palpebra del bambino vibra leggermente. Lui si tira su.
«Va bene.» dice guardandosi le scarpe.


La vecchia l’ha vista arrivare dalla finestra, se lo sentiva che qualcuno sarebbe venuto da lei quel
giorno. La ragazza camminava a passo svelto su per il sentiero scosceso. Deve avere buone gambe,
deve essere della zona, ha pensato la vecchia. Forse l’ha vista quando era una bambina, forse ha
servito la madre o la nonna, e adesso era lei che pretendeva qualcosa e dopo che l’avrà ottenuta se
ne andrà come hanno fatto tutti. La ragazza ha bussato alla porta e la vecchia si è messa a sedere su
una sedia, lisciando bene la pesante gonna nera. Ha lasciato che passassero alcuni secondi, abbastanza per sentire il divertente potere di avere in pugno il tempo di qualcun altro, poi ha urlato avanti.
La ragazza ha appoggiato sul tavolo un cesto pieno di ortaggi, mentre non ha fatto nemmeno in
tempo a sedersi che già aveva iniziato a parlare di questo suo figlio, che fino a poco tempo fa era il
figliolo perfetto, sempre allegro e contento, con le solite tigne che fanno tutte le creature ma quello
era normale, quello se l’aspettava, un bambino solare e soprattutto chiacchierone, non la finiva mai
di ciarlare su qualsiasi cosa e di fare domande, così curioso del mondo che gli stava attorno. La vecchia avrebbe voluto risponderle che era certa che da lei poteva uscire solamente un figlio
chiacchierone, ma non ha avuto modo di prendere la parola. Poi però questo suo figlio era cambiato – ha continuato a raccontare la ragazza – era cambiato all’improvviso, era diventato distante e ombroso, non parlava più, non sorrideva più, insomma lei era convinta che era stato scambiato dalle fate con una creatura demoniaca.
«Ha fatto la prova delle uova e camomilla?» ha chiesto allora la vecchia.
«Certo che sì! Ho preparato una camomilla deliziosa, lo so perché ne ho bevuto un sorso, o forse due. Ho versato la camomilla dentro i gusci delle uova e ho chiamato il figlio mio. Ma lui non è venuto subito, perché lui non mi dà mai retta, è come se io non gli parlassi, come se non esistesse nemmeno. Invece a suo padre vedo che gli dà più ascolto, perché lo teme di più. Lui poi fa presto, due sberle e pensa di aver risolto tutto, ma si sa che i padri sono così, lavorano tanto e bisogna lasciarli stare, invece a mio marito è capitata la disgrazia di un figlio scambiato. Comunque sulla camomilla nelle uova dicevo, alla fine sono riuscita a mettere il figlio mio davanti ai gusci, anche se è stata una faticaccia non da poco. Poi me ne sono andata, fingendo di dover fare altre faccende, ma ho accostato solo la porta e sono rimasta ad ascoltare con le orecchie belle dritte. Ma non ho sentito niente, nessuna formula magica strana o borbottio sospetto. La verità è che lui non ha aperto bocca, come sempre d’altronde. Allora, sconfortata sono rientrata, ma può immaginare il mio stupore quando l’ho beccato mentre si beveva la camomilla! Stavo quasi per svenire, ma lui ha sorriso. Ha sorriso proprio, un sorriso vero, con tutti i denti scoperti! E ha gongolato come se gli scappasse una risata. Per un istante mi è parso di rivedere mio figlio, cioè il mio bambino, quello che ho partorito io.»

La ragazza ha tirato su col naso e col dorso della mano si è asciugata le prime lacrime.
«Ma lei che cosa dice? Bere la camomilla dai gusci, non è un comportamento strano?»
«In effetti lo è»
Nel sentire quelle parole, le lacrime hanno ripreso a scendere; la ragazza ha tirato fuori dalla manica
un fazzoletto e si è soffiata forte il naso.
«Che altro posso fare?» ha chiesto.
«Ha provato col cesto nel camino?»
«No!» ha gridato la ragazza, afferrando il tavolo con entrambe le mani, come se temesse di cadere.
«No, no, no. Quello non posso farlo. Non posso. Non me lo chieda nemmeno, tanto non lo farò.
Non c’è un altro modo? Uno qualunque?»
«Sì, qualcosa c’è.»
La vecchia si è alzata, un po’ traballando e sentendo le ginocchia scricchiolare, ha iniziato a girare nella piccola stanza che formava tutta la sua casa, aprendo cassetti e guardando dentro le credenze.
Si è scusata per il disordine, ma lei non è più abituata a ricevere visite, e ha continuato a parlare anche se sapeva che la ragazza non la stava ascoltando. Ha notato che era rimasto del thè dentro il bricco così ha offerto una tazza alla ragazza, che, con le labbra ancora un po’ umide e lo sguardo inchiodato al pavimento, le ha chiesto se avesse dei figli.
«Il Signore ha scelto di non farmi questo dono.»
«Li voleva però? Se fossero arrivati, li avrebbe tenuti?»
La vecchia le ha voltato le spalle, ha aperto un cassetto e ha iniziato a frugarci dentro, questa volta però senza prestare lo sguardo a ciò che aveva davanti.
«Mi scusi. Non sono affari miei. Davvero, mi scusi.»
La vecchia ha cessato di frugare, ha annuito piano piano, poi ha ripreso a controllare il cassetto con
più attenzione; trovato ciò che cercava, è tornata a sedersi di fronte alla giovane.
«Lei pensa che io sia una buona madre?»
«A questo non so rispondere, mi dispiace.»
Una lacrima lunga e solitaria è tornata a bagnare il volto della ragazza, che stavolta non ha fatto nulla per asciugarla.
«No, infatti, come può saperlo? Non mi conosce nemmeno. Mi perdoni per queste domande sciocche.»
Per la prima volta da quando ha visto la ragazza avanzare a passo svelto verso la sua porta, la vecchia ha sentito qualcosa smuoverle dentro e ha maledetto quello specchio deformato che altro non è se non le persone che incontriamo lungo la via. Si è inclinata verso di lei, in modo da esserle più vicina e per richiamare il suo sguardo.
«Però una cosa la so e gliela voglio dire. In verità penso che anche lei lo sappia già, ma a volte abbiamo bisogno che qualcuno ci ricordi quello che abbiamo dentro, altrimenti rischia di rimanere
sotto un velo di nebbia. Lei va a messa, sì? Certo che ci va, si vede che è una brava cristiana. Se va
alla messa allora si ricorda quello che disse l’angelo di Dio quando cacciò Adamo ed Eva?
All’uomo ha destinato il sudore, e il sudore si sa da dove viene, dalla fatica, si sa da dove salta fuori, dalla pelle, e si sa che basta una passata con la mano o con uno strofinaccio ed è bello che andato via. Ma la donna l’ha condannata al dolore, e per il dolore non c’è mano o straccio che tenga.» Ora anche la vecchia sente una freschezza negli occhi e con mano tremante appoggia sul tavolo una candela. «E soprattutto non sempre si sa da dove viene, si sa soltanto che c’è e che da lì non si muove.»


Se non ci fossero state, niente avrebbe trattenuto il bambino così a lungo nel bosco e il piano sarebbe andato a caroncole. Ma per fortuna le farfalle ci sono. Il bambino le segue con lo sguardo mentre si spostano di fiore in fiore o volteggiano a spirale l’una vicino all’altra, come se ballassero.
Sono prevalentemente gialle, con qualche striatura nera sulle ali, e quando passano attraverso i raggi
del sole (i pochi che riescono a infiltrarsi tra le fronde) pare che possano emanare luce propria. Il bambino rimane a lungo a fissarle, borbottando dei piccoli versi di approvazione. La donna a sua
volta fissa il bambino e si sente una testimone impotente quando vede che la luce dei suoi occhi (lei
direbbe la luce umana) va scemando, lasciando il posto a un baratro oscuro. Il bambino avanza
verso le farfalle con le mani protese in avanti e le gambe arcuate che non lo fanno andare dritto
sparato, ma lo fanno ondeggiare come un marinaio che è tornato da poco sulla terra ferma, o come
uno gnomo. Comunque il bambino, anche se non fosse ondeggiante, sarebbe troppo lento e le
farfalle troppo veloci. Dopo svariato tempo passato inutilmente nel tentativo di acciuffarle, si sdraia
a terra piangendo, contorcendosi e battendo le mani e i piedi. Si rasserena soltanto quando riesce a
prendere due malcapitati pregogò che, sebbene siano meno affascinanti forse, sono più lenti delle
farfalle. Per prima cosa gli spezza le ali, poi appallottola i due corpi insieme, formando un’unica pasta scura. Le mani gli si sporcano di polvere nera, quella che faceva volare gli animali, e lui ride soddisfatto facendosi venire le lacrime agli occhi. Ora l’entusiasmo mentale lascia il posto alla stanchezza del corpo; il bambino si avvicina alla madre e le si accovaccia ai piedi come un gatto.
«Stanco. Tornare?»
La donna non fa in tempo ad allungare la mano per sentire se ha la fronte sudata, che il bambino si è
già addormentato. Ora è atroce guardarlo dormire – il piccolo torace che si alza e si abbassa per seguire il movimento della respirazione – perché quello che vede è soltanto un bambino che dorme.
Con la mente ritorna alla casa sull’ultimo crinale della montagna, ritorna davanti allo sguardo strabico della vecchia e a quel suon bubbone enorme sul mento che cancellava gli altri tratti del viso. Le è pure sembrato che quando le ha offerto il thè, lo abbia versato con la sinistra, a quel punto non poteva rifiutarsi di bere, ma si è fatta un veloce segno della croce quando la vecchia si è voltata. Quello che le ha detto di fare non le sembra più necessario ma inevitabile, qualcosa che si deve compiere anche senza di lei. Dalla sacca estrae due corde di juta, le usa per legare mani e i piedi del bambino. Sopra la testa del bambino scava una piccola buca con le unghie; ci mette dentro la candela che le ha dato la vecchia. Dopo averla accesa con un fiammifero, si alza e inizia a camminare nella direzione opposta. La vecchia l’aveva avvisata che quello era il momento in cui il bambino poteva svegliarsi e mettersi a piangere, ma lei non sente alcun pianto, anzi non sente niente a parte la terribile sensazione di due occhi che le fissano la schiena. Quasi senza deciderlo inizia a correre, sentendosi grata per i rami bassi e gli sterpi che le graffiano il viso, le scorticano le mani. Si ferma soltanto al limitare del bosco. La sua casa è ancora lontana e invisibile agli occhi, sembra quasi che non esista, che lei non abbia un posto a cui fare ritorno. Pensa alla candela e alla candela soltanto; la vecchia le ha detto che una volta che si sarà esaurita potrà tornare nel bosco e ritrovare suo figlio. Il fiato non le è ancora tornato, il cuore batte come un tamburo sordo e distante, eppure riprende a camminare immaginando la candela – sempre e solo la candela – la cui fiamma brucerà stanotte, domani notte e tutte le notti che verranno. Sì, brucerà per sempre.

di Lucia Tradii

foto di Giulia Massetto

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