Eccoti. L’hai fatto di nuovo.
Ogni volta prometti che sarà l’ultima; come ieri notte, ricordi?
La conosco a memoria ormai, quella tua espressione. Quelle rughe sulla fronte, quel ciuffo di capelli grigi che in parte le nasconde. L’ombra nei tuoi occhi, che imita la rabbia, ma sa solo di agonia.
Ti sento anche adesso. Cammini, avanti e indietro, a meno di un metro dalla Porta.
Lo prometti ogni volta. Me lo giuri, ogni volta.
Che non ci cadrai più.
Che non tornerai più.
Eppure.
Quanto tempo è passato? Troppo, vero?
Eravamo così piccoli… Così soli. Chissà se ti ricordi la prima volta che mi hai vista.
Sì, che te la ricordi. Lo so, perché la ricordo anche io.
Quel giorno a scuola avevo trovato un gessetto azzurro. Ero contenta, non mi capitava
spesso di trovarne che non fossero bianchi. Forse l’insegnante mi aveva vista, mentre lo nascondevo in tasca, ma ha fatto finta di nulla. Quando sono corsa alla casa abbandonata, nel pomeriggio, non vedevo l’ora di nascondermi. Di stare per conto mio.
E invece ho trovato te. Minuto e pallido, ammaliato e intimorito dalle scale pericolanti e dagli stanzoni adorni solo di ragnatele.
La casa era grande, ma tu eri finito proprio in quella stanza. Nella mia stanza.
Mi sembra quasi di vederti, anche adesso; il modo in cui ti sei voltato, sussultando, ritraendoti in quei vestiti smessi che erano ancora troppo larghi. La maglietta era sporca di terra e sul tuo volto di bambino era dipinta la vergogna di un ladro.
Prima che arrivassi stavi guardando i miei disegni. Erano tanti, accalcati sulle pareti scrostate; ne stavi toccando uno, in quel preciso momento.
La Porta.
Era uno dei più vecchi, l’avevo fatto con un gessetto rosso. Ormai stava sbiadendo e proprio quel giorno, quando avevo trovato il gessetto azzurro, avevo deciso che era giunto il momento di ripassarlo.
Ricordo che sono stata io a salutarti per prima.
«Ciao. Chi sei?»
«Luca», mi hai risposto, lanciando occhiate nervose ai miei disegni. Forse non ti piaceva guardarmi, non ancora.
«Li hai fatti tu?»
«Sì.»
«Sei brava.»
Abbiamo parlato tanto, quel giorno. Parlare è sempre stato il nostro gioco preferito.
Ti sentivi solo, come me, ma mentre io avevo la mia casa, la mia stanza, tu non avevi nessun posto in cui nasconderti; forse per questo sei sempre tornato da me.

Non ho mai saputo se frequentassi la mia stessa scuola, oppure una vicina. Non ci siamo mai dati appuntamento da nessun’altra parte, e per la verità, non ci siamo mai dati appuntamento nemmeno laggiù.
Eppure lo sapevamo. Sapevamo che ogni giorno, dopo le lezioni, ci saremmo trovati lì.
Sapevamo anche che il sabato e la domenica non aveva senso tornare alla casa, perché nessuno dei due si sarebbe presentato; forse temevamo che i nostri genitori ci scoprissero.
Che scoprissero il nostro posto. La nostra stanza.
Ho provato a insegnarti a disegnare, ma eri davvero negato; forse era per questo che i tuoi sogni non uscivano dal muro. Forse non li disegnavi abbastanza bene.
Ma non importava; i miei bastavano per tutti e due.
La prima volta hai avuto paura. Non è stato facile spiegarti, ma poi hai capito; hai capito che i miei sogni non ti avrebbero mai fatto del male, che erano miei ma potevano essere anche tuoi.
Quanto eravamo felici, nella nostra stanza.
La Stanza delle Meraviglie. Ricordi? Sei stato tu a sceglierle il nome.
Ricordo che c’era un solo momento in cui non sorridevi mai, ed era il momento in cui, con il gessetto azzurro, ripassavo la mia Porta.
Lo facevo tutti i giorni, prima di andare via, fin da quando ci eravamo incontrati. Non ti piaceva, lo sentivo, ma volevo che fossi tu a parlarne per primo e un giorno, finalmente, lo hai fatto.
«Perché la ripassi tutti i giorni? Ormai il gessetto è quasi consumato. Lo stai sprecando.»
«Non lo sto sprecando», ti ho detto.
«Questa Porta non deve sbiadire. Un giorno sarà la mia entrata nella Stanza delle Meraviglie.»
«Un giorno?»
Non capivi.
«Quando?»
«Quando morirò.»
Quella Porta era l’unico sogno che non usciva mai dal muro; per questo pensavi che stessi sprecando il gessetto azzurro. Ma quel giorno ti ho mostrato la vecchia chiave arrugginita, il mio tesoro più prezioso, che tenevo sempre in tasca. L’avevo trovata sul pavimento, nella casa abbandonata, la prima volta in cui ci avevo messo piede. E ora era la mia chiave, per la nostra stanza. Una chiave magica che apriva solo la mia Porta.
Sei ancora qui, Luca?
Sì. Riesco a sentirti, anche se hai smesso di camminare.
So che mi stai guardando, con gli occhi della memoria; sono ancora gli stessi che avevi da bambino. Sono sempre scuri, ma senza rabbia, né agonia, e mi piacciono molto di più.
Stai pensando al giorno in cui ho finito il gessetto azzurro. Lo stai ricordando, insieme a me, anche se mi hai giurato che non lo avresti fatto più.
Eri corso via senza aspettarmi, giù per la scala pericolante, perché stava arrivando l’inverno e faceva buio molto presto; eri certo che tuo padre si sarebbe infuriato per il tuo ritardo.

Mi hai aspettato nell’atrio, stizzito, urlando che dovevo sbrigarmi. Forse sono corsa da te con troppa foga.
Il legno era marcio. Gli scalini hanno ceduto.
Non piangere.
Sai che non è colpa tua; la nostra casa era molto vecchia, sapevamo che era pericoloso.
Ma la nostra stanza era troppo importante, vero?
La nostra Stanza delle Meraviglie.
Mi senti, Luca?
Mi senti anche adesso?

*

L’aveva fatto di nuovo.
Si era ripromesso di smettere; sapeva quanto gli facesse male.
Glielo si leggeva in faccia, attraverso lo specchio che sembrava quasi giudicarlo, impietoso, dal fondo della camera da letto.
Guardò con disprezzo gli scompigliati capelli grigi, le profonde occhiaie, la fronte aggrottata; gli parve quasi che fosse spuntata una nuova ruga, una che la notte prima non c’era.
Probabilmente era così; un nuovo marchio a ogni promessa infranta, scavato nel suo volto e nei suoi occhi. Sempre più dentro, sempre più in fondo.
Questa notte è l’ultima, lo giuro.
È l’ultima volta che parlo con te.
Quanto tempo era passato? Troppo.
Eppure.
Non riusciva a smettere, davvero non ne era capace; del resto, parlare era sempre stato il loro gioco preferito.
E Clara gli parlava. Ogni giorno, incessantemente.
Nella sua testa, nascosta al mondo, protetta dagli altri che mai avrebbero potuto capire.
Laggiù, dove la scala non era mai crollata, dove la loro casa non era mai stata abbattuta.
Dove la Stanza delle Meraviglie aveva ancora la sua Porta.
Il suo riflesso nello specchio si mosse appena; stava piangendo, anche se Clara gli aveva chiesto di non farlo.
Non avrebbe dovuto ricordare quel giorno; li rendeva sempre entrambi tristi.
Carezzò distrattamente con il pollice la vecchia chiave arrugginita che teneva in mano. Era fredda.
Ricordava il momento in cui l’aveva raccolta dalle macerie della scala. Ricordava che era vicino a del sangue, ma non ricordava il corpo di Clara.
Si era sentito un ladro, proprio come il primo giorno.
L’aveva lasciata lì. L’aveva abbandonata lì sotto.
Se ne vergognava ancora, dopo tutto quel tempo, dopo tutto quel parlare. Dopo tutte quelle volte che Clara, nella sua testa, lo aveva perdonato.

«Un’ultima volta» si disse, alzandosi dal letto.
«Proverò un’ultima volta e poi mai più. Lo giuro.»
Si trascinò verso la parete vuota che da anni ospitava lo stesso disegno, ripassato infinite volte con gessetti di tutti i colori.
Una Porta.
Prima si appoggiò con una mano. Poi con la fronte.
I suoi sogni non uscivano mai dal muro. Non l’avevano mai fatto, perché a disegnare era davvero negato.
Cercò la toppa di colore e gesso, graffiando il muro con la punta della chiave.
La trovò.
Spinse la chiave, lentamente, come una lama nella carne. La ruotò.
«Clara. Mi senti?»

di Maddalena Marcarini

Foto di Urbex Footsteps

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