Era il 2016 quando Refn ci ha incantate con la bellezza brutale di Neon Demon.
Oggi i demoni sprigionati dalle rifrazioni di quelle luci violentissime, in Copenhagen Cowboy si prendono uno spazio tutto nuovo.
Perché quella che ci regala Refn (la trovate su Netflix) è una storia di fate, streghe, magia e fantasmi, ambientata in una Copenhagen moderna, dove droga, prostituzione e morte divengono la camera oscura da cui scaturisce una narrazione al filo dell’onirico.
Copenhagen Cowboy è un fantasy iperestetico dove una delicatezza femminile atipica si veste di un’armatura capace di far crollare il mondo stesso.
Miu (Angela Bundalovic) è la nostra protagonista, una giovane donna minutissima, dai grandi occhi scuri. Una creatura, lo comprendiamo subito, che non appartiene a questa realtà. Miu è un oggetto mistico, passato sin dall’infanzia di mano in mano grazie a quella che appare essere la sua capacità intrinseca di portare fortuna (ma anche, lo scopriremo, morte).
Ma chi è Miu, cos’è Miu?
Miu, per noi, è una creatura che sia avvicina alla fisicità di una fata, una meraviglia astratta nata da roseti che fioriscono al suo passaggio. Al contempo, lo scopriremo, è un’imbattibile guerriera, un disegno uscito dagli anime, una paladina invincibile, perfetta (per molte stagioni) nella sua tecnica fisica del combattimento corpo a corpo.
La piccola Miu, nel suo aspetto volutamente simile a quello di Giovanna d’Arco, nel corso della serie camminerà, mani nelle tasche, accanto ai più pericolosi gangster della città danese, senza mai abbassare lo sguardo, confrontandosi anche con chi, fisicamente, è più imponente di lei. L’apparente fragilità di questa donna è un monito sereno al confronto con il mondo: lì fuori tutto ti può mangiare, mangialo tu per prima.
Refn infatti non disegna in questa protagonista una paladina della giustizia dalle lunghe trecce bionde: Miu è una creatura nata per riportare equilibrio al proprio passaggio, a costo di un massacro che va a piegare la realtà in modi che spesso noi spettatori, ormai acclimatati al disegno giapponese dell’eroina donna, non comprendiamo nell’immediato.
E non lo comprendiamo perché la forza della serie, che allo stesso tempo ne costituisce il punto maggiormente disorientante, è il fatto che niente e nessuno in questa Copenhagen notturna sia totalmente rosso o blu. Siamo abituati al comfort del Cinema, dei vecchi (ahimé) cartoni anni Ottanta, delle fiabe classiche, dove i cattivi sono cattivi e i buoni sono buoni. Refn, in questo contesto, decide ancora una volta di dialogare con lo spettatore attraverso i colori: il blu e il rosso, colori dominanti in tutta la narrazione, si contrappongono, ci avvertono e ci mettono in discussione, fondendosi in alcuni frame in un rosa che ci fa intuire un’inevitabile umana fragilità nella distinzione Bene-Male. Miu, ad esempio, indossa una tuta-armatura blu, sulla quale però corre una cucitura rossa: la protagonista, lungo il suo cammino e le molteplici quest a cui prenderà parte proprio come in un racconto formativo, non produrrà solo Bene, ma disseminerà sangue e morte, nonché pura e brutale vendetta.
Copenhagen Cowboy è un racconto estetico (conosciamo bene Refn da questo punto di vista, con le sue eterne panoramiche e i lunghissimi primi piani), che diviene prolungamento della dicotomia uomo-donna che più di una volta il regista ha voluto affrontare nel proprio lavoro. Nel racconto la verginità di Miu si scontra con la violenza del super-cazzo (non è una mia espressione colorita, lo incontrerete davvero nella serie), la natura della nostra eroina, così vicina a quella dei boschi, andrà a sbranare l’impianto meccanico maschile della macellazione, la sua delicatezza si vestirà della forza tipicamente femminile nel proteggere gli altri con ogni mezzo, quando necessario.
Personalmente sono rimasta deliziata nel rendermi conto che questa serie non volesse essere una metafora, o una narrazione lineare: Copenhagen Cowboy è una fiaba. Sono “Le avventure della piccola Miu”, una creatura appartenente ad un mondo altro, forse alieno, che incontra uomini malvagi dai volti marcati e dagli intenti misteriosi. L’amore è un filo conduttore potente nella serie, che si distorce sotto la forma dell’abuso sessuale e dell’omicidio, dell’incesto, della metafora del possesso e, al contempo, della delicatezza dell’incomprensione.
Miu pratica magie, guarisce le persone, ma sceglie autonomamente chi meriti il prorpio aiuto, non curandosi delle sfumature di rosa che possono possedere certi scenari di conflitto. Miu combatte con delicatezza e forza, dimostrando che non è la possanza a poter abbattere il nemico, ma la strategia e l’equilibrio. Una piccola Davide contro mostruosi gangster-Golia.
Copenhagen Cowboy, sia chiaro, non è una serie da mettere come sottofondo mentre si cucina. Si tratta di una narrazione intensa e impegnativa che spesso lascia interdetti. Refn, con questo lavoro, si permette una creazione estetica di altissimo livello, prendendo il proprio spazio anche nel campo della moda, che diventa frame esso stesso.
È un atto rivoluzionario, violento, un cowboy che entra in uno scenario totalmente atipico per mettere sottosopra la città.
Refn, in Miu, ha avuto il desiderio di creare un proprio alter-ego nella forma di una giovane donna, un modello che le sue stesse figlie potessero seguire. Il racconto, difatti, è stato messo in mano a due sceneggiatrici (Sara Isabella Jønsson Vedde e Johanne Algren) che hanno trascinato la piccola Miu all’interno dello scontro con un mondo che vede la donna come oggetto, come cibo, come denaro.
La nostra protagonista è la donna che vorremmo tutte essere: incredibilmente forte, distaccata, priva di paura e senza macchia. La bellezza di Miu sta anche nel suo desiderio di vendetta, un rancore verso il passato e il presente che è tipicamente e innegabilmente femminile.
In Copenaghen Cowboy la mascolinità fatta di dominazione fisica, di denaro e aggressione si frantuma contro gli occhi limpidi e la natura profondamente onirica di questa silenziosa spettatrice, sospesa tra due mondi.
Miu affronterà quindi trafficanti di donne, vampiri, gangster e mafia, senza risparmiare nemmeno il sesso femminile affiliato alla dinamica di potere maschile, donne che godono di un potere riflesso, inginocchiate però a pulire con il Vetril i ripiani su cui gli uomini tirano di coca. Flame.
Ma come in ogni anime, dopo tante battaglie vinte, arriva il boss finale. Miu è imponente, statuaria, crudele e meravigliosa, ma vacillerà in un confronto mortale e inevitabile: lo scontro animale con Rakel, una creatura tornata dal mondo dei morti. La prima donna che Miu, nella serie, si troverà a dover sconfiggere.
E sull’urlo animale di Rakel, cala il sipario. Attendiamo la seconda stagione.
Insomma, Copenhagen Cowboy è un lavoro disarmante e imponente, forte e ricco. Un lavoro fatto da uno dei registi più estroversi e filo-femministi del panorama attuale. Ribadiamo che si tratti di un’esperienza al limite della videoarte, non fatta per la serata pizza-e-birra. Ma è una piccola (come Miu) rivoluzione.
Streghe, fantasmi, riti e sangue. Questo, sicuramente, fa di Copenhagen Cowboy una serie completamente nelle nostre corde.

Di Irene L. Visentin

Art di Giulia Faconti (__pech)