A Elisa Gallo

Luz guidava come un’assassina. La jeep era una carcassa di pezzi di altre carcasse rivenute nei depositi della contea. Il motore strappava, mandava una tosse da far pietà e lei si beava della resistenza della sua creatura ad ogni svolta, salita, buca. Premeva sull’acceleratore e soffocavamo tra nuvole di polvere. Il deserto passa dai finestrini, sotto le porte; si prende le case, le strade, entra nel naso e si deposita strato su strato. Nei polmoni si contano come gli anelli degli alberi, gli anni vissuti a Yuma.
Solo voy con mi pena
Sola va mi condena.

Aveva spinto Manu Chao nel mangiacassette, messo una parrucca gialla e cantava sugli stenti della jeep. Io sfilavo e infilavo un braccialetto, irrequieta e conciata a festa. All’ennesimo sobbalzo è rotolato sotto al sedile. Mi sono chinata in avanti, tra le mie scarpe e la spazzatura.
“Te n’eri ricordata.”
Avevo trovato una scatola di cibo per gatti. Un gatto nero si leccava i baffi sull’etichetta. Somigliava a lui.
“Mi è caduta.”
“Non fa niente, ormai.”
Le dico. Montecristo era morto da poco. Da queste parti un animale per strada è un bersaglio, che sia gatto, topo o serpente. Ripenso al suo cadavere piallato sui grani d’asfalto, illuminato dall’insegna del bar. Mi sento sorridere. Getto la scatoletta dal finestrino e Luz brontola qualcosa in spagnolo che fingo di non capire.

Parcheggiamo sulla scia di altre auto decrepite. Lontana dalla jeep non riconoscerei Luz con questi vestiti e gli stivali da cow-boy, se non fosse per l’odore del deserto che ha addosso. Si mastica labbra, pellicine e rossetto. Mando giù al posto suo saliva e sensi di colpa. Condividiamo l’inquietudine, fianco a fianco.
“Non sei obbligata.”
La sua bocca prende tutto lo spazio della faccia. Non riesco a smettere di guardarla.
“Andiamo niña.”
Ci sono fari ad aprire un passaggio nella notte, puntati al magazzino arrivano a esplodere in frammenti nevrotici. Rosso, blu, bianco, argento. Socchiudo gli occhi.
Devo fare qualcosa, aveva detto. Tu, devi fare qualcosa.

Ha abbracciato un tizio, peloso in faccia e sul petto. Non sono abituata. Ho di lei immagini solitarie: alla guida, che suona alla mia porta, che scrosta Montecristo dall’asfalto per riportarmelo chiuso in un sacchetto, in lacrime. Mi impunto al silenzio, mi sussurra divertiti e mi guida tra le luci.
I corpi la inghiottono, io resto indietro. Diventa parte di un’onda di braccia e gambe che si divide e ricompone senza restituirla. La musica stride di percussioni, di scale e vertigini che detonano una traccia sull’altra. Ballano e non respirano, balliamo e non respiro. Qualcuno mi si aggrappa alla spalla, ai fianchi, i polsi, dita zuccherine mi lasciano impronte roventi. Creste iliache sulle mie, carezze sotto i vestiti. La abbraccio ed è calda, ha i capelli di lana e confetto, non ha voce, nessuno ha una voce, la musica urla e ci strappa i nomi anche se ce li urliamo addosso. È il momento, penso: adesso o mai più. Le prendo un polso, le succhio un polpastrello. Faccio piano, scivolo con la lingua, ma lei lo sfila e io mi ritrovo fuori. Sola. Non riesco a vedere Luz. Come uscirà da un corpo fatto di corpi? Dimenticherà di averne uno? E che ne sarà del mio? Mi accovaccio a terra, i capelli mi coprono fino alle ginocchia.
“Vieni, guapa.”
Mi tirano su, sono due. Non mi oppongo, gli dedico un sorriso spaccato da una mezza incoscienza. Mi danno dell’acqua e la sputo.
“Devi bere, bevi.”
Non voglio bere. Contro il petto di Paulo ricomincio a ballare. È la mia seconda occasione. Il suo amico ci lascia soli e io divento l’onda, mi arrotolo su di lui e lo trascino su di me. Lo tasto sotto le dita, sotto le unghie e a lui piace, mi lecca la gola. Scorro nei jeans, sono la sua pelle e lui mi sfila la maglietta, si tende la corda della mia spina dorsale, un arco spinto contro una pila di casse. Respira, Paulo, respira. L’angolo della mascella mi affonda nella guancia, mi tiene ferma. Spinge. Godo, lui grida e nessuno lo sente, la musica gli azzera la voce. Mi scopa e le palpebre gli fremono alla periferia di un incubo che si realizza, che mi bagna le labbra e poi lo stomaco. Una chiazza tonda. Trapassato dalla scapola allo sterno, continua a piantarmi il cazzo tra le budella. Un rantolo dalla gola e dalle costole intona un sibilo: si spegne quando il suo corpo crolla e io sbatto contro la parete di casse. Tra le gambe mi gocciola una spuma rosata. Col dorso della mano, tappo una risata e nascondo la lingua che scorre sui denti e cancella la mia colpa.
Quella di Luz le inguanta le mani, strette a un paletto della recinzione. Arretra per non bagnarsi gli stivali e raccoglie la mia maglietta. È sporca di rosso: un po’ è materia organica di Paulo, un po’ è polvere. Sorrido e mi trascina via. Ancora danzano: persi in un unico corpo, non fanno caso a noi né alla notte che si assottiglia.
“Non eri costretta.”
Alza le spalle, come a dire non è vero, non importa. Ripulisce le mani sulle scaglie del top e mi spinge nel bagagliaio; la sento salire, mettere in moto. Riaccende Manu Chao. La jeep manda un lamento.
Lei può vedere il cielo accendersi lungo una scia, dallo specchietto. Abbassa il volume, la sua voce è velluto, supera i grani di luce che sono riusciti a entrare e mi sfiorano. Prudono.
“Sono un mostro, Luz?”
“Sei solo una zanzara, niña. Una zanzara che fa fuori i gringos. Dormi, non pensarci. Sei al sicuro, adesso.”


di Nicole Trevisan

Foto di Urbex_Footsteps

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