Finalmente, oscillo.
Lo desideravo da così tanti anni che ormai non ricordo nemmeno quale fu il momento preciso che accese questa miccia. Questa miccia che si è consumata.
Che mi ha consumata.
L’aria tiepida di un’estate precoce mi accarezza le guance. Credevo avrei pianto. La rassegnazione, forse? O, finalmente, la quiete?
Tutto nella mia vita ha oscillato con me, e fuori e dentro di me.
La realtà non si è mai aggrappata davvero alla mia testa. Ci ha piuttosto giocato a pallone, col mio cervello, che è andato ad usurarsi a forza di essere preso a calci dal cuore e dagli altri. Non ho saputo prendermene cura, non sono mai entrata in possesso degli strumenti per farlo. Ed eccomi qui, come le foglie di cui parlava Ungaretti, i soldati in guerra nel loro perenne equilibrio precario, ad attendere che il picciolo della loro esistenza si staccasse dal rigoglioso ramo delle opportunità.
Ah, ma quale mistero si nasconde dietro una certezza, con tutti i suoi tentacoli, con tutte le sue folgorati appendici di luce, pronta a farti sua per sempre?
Un’unica convinzione, infatti, non mi fece naufragare nell’arida terra della mia intima dimensione.
Durò anni. Durò troppo tempo. Le permisi di entrare e di manipolare
ogni
singolo
respiro,
ogni mia ambizione realizzabile od utopica, ogni mio momento onirico, dal quale mi svegliavo con qualche briciola di gratificazione in bocca.
Le persone vivono perché respirano, perché il loro cuore batte, mirando ad un personale crescendo, alla totale realizzazione individuale. Girano il mondo, scoprono culture, musiche, cibi. Si lasciano incantesimare dalle opere d’arte, dagli animali esotici e dalle raffinatezze fuori dalla loro portata.
Quanto vorrei avere vissuto un giorno soltanto godendo a pieno di quello che mi si offriva: un bel tramonto, una canzone ballabile, una piacevole compagnia.
Mi trovavo invece impigliata in quella mia certezza, come se un alieno me l’avesse piantata nel cranio in maniera irreversibile. Lei muoveva i pensieri, astratti e non: confluivano in lei abbondanti, sempre rimpolpati di speranze nate dai suoi stessi semi. Un loop infinito che mi faceva rifiorire ed accendere in un solo istante, poiché quella corrente continua vibrava nel suo flusso dentro ogni mia cellula.
Un ristoro, una sostanza dopante secreta dal mio cervello, per il mio cervello.
E per il mio piccolo cuore, che batteva perché quella certezza gli diceva impetuosa di farlo. Sì, perché lei era talmente grande, talmente potente e dispotica da imperare anche su quello “a cui non si comanda”.
Ed io mi muovevo così, nella vita: un fantoccio appeso ai fili che si era costruito da solo, in un momento in cui farlo era l’unica – davvero l’unica – cosa sensata.
Sento la brezza farsi viva ancora una volta attorno a me. Mi abbraccia, mentre oscillo. Mi sento protetta, mi sento dalla parte della ragione, non vi è macchia di rimpianto.
Se avessi saputo di tanta dolcezza, non avrei atteso così a lungo. Non avrei permesso alla mia burattinaia di illudermi tanto, di consumarmi, e svuotarmi.
Una donna più forte sarebbe stata capace di dialogare sinceramente con una psicoterapeuta, o addirittura, direttamente col suo demone. Perché mi son fatta pilotare e basta? Senza mai impormi, o aver la determinazione di scansarlo?
Sono cresciuta con grandi scudi davanti agli occhi: laddove vi era un problema, a me ne era oscurata la conoscenza. Non sapevo del lutto, non sapevo dei conflitti. Distante da ogni male, non si può apprendere come difendersi, o come familiarizzare con esso.
Ma si cresce, ed il male arriva, ed è più spietato che mai. È inevitabile: ti porta via i tuoi cari, falcia le amicizie, offende la tua persona, la fa a pezzi.
Gli scudi che avevo sugli occhi si staccarono, e li schermai attorno alla mia persona, chiudendomi nel mio guscio benedetto dalla consapevolezza di poter essere una donna migliore, meno fragile, più autonoma.
Tutte queste piccole manovre, però, erano sempre dettate da lei, dall’unica sicurezza che avevo.
Ricordo perfettamente quando arrivò, spaccandomi le ossa: ero in parcheggio, aspettavo Valerio, guardando il cartello di senso alternato che stava a dieci metri da me.
Senso alternato.
Quel cartello accese un domino di immagini che mi lasciarono senza fiato. Gettai la sigaretta dopo un fortissimo senso di nausea, e mi raccolsi in ginocchio per tenermi stretta.
Perché oscillavo. Oscillavo davvero, più di un pendolo, più delle foglie-soldato, più di un ponte tibetano con la comitiva di passaggio. Oscillai come le case durante il terremoto che le avrebbe rase al suolo. Oscillai così tanto che per rimanere salda e lucida mi aggrappai alla rastrelliera delle biciclette, o mi sarei spalmata la faccia sul cemento gelido di fine anno.
Ero giovane, e lei entrò dentro, e non mi lasciò più rinsavire.
Era quasi sempre un arcobaleno morbido, che mi portava su e giù fra nuvole di panna e zucchero. Mi trasportava ancora più distante, disorientandomi in una bellezza e in una serenità a me sconosciute sino a prima. Ero stordita da quanto fosse forte, da quanto fosse totalizzante, da quanto mi sentissi di sua proprietà.
Il nero, invece, arrivò mentre mi guardavo allo specchio. Ero sciupata dagli anni, dall’assenza di stimoli, dalla fievolezza delle mie speranze. Lei brillava di tanto in tanto: oramai le avevo dato ogni fibra del mio essere, le avevo dedicato ogni mia naturale funzione corporea, civica, femminile e spirituale.
Un accumulo di anni devoti. Un flusso costante ridotto oramai in brandelli di anima.
I miei capelli avevano perso la loro consistenza sana, e stavano ammassati in nodi crespi, indistricabili, come me. Arida la mia pelle, verdognola e profanata dai segni del tempo.
La mia bocca, nata per non sorridere. I miei occhi scialbi, scrigni delle ombre che mi avevano divorata.
Perché lei quel giorno se ne andò dal mio corpo, e proprio dagli occhi uscì senza far rumore, portandosi via anche l’ultima porzione di ragione.
Mi ero convinta di qualcosa che non avrebbe potuto mai presentarsi nella vita di una come me: nata nell’ombra, cosa ne potevo mai sapere della luce? Avrei avuto qualche scudo anche per proteggermi dal bagliore accecante della felicità?
Ne avrei tirati fuori mille, di scudi, nonostante il mio desiderio sconfinato di riuscire ad essere una donna normale.
Perché ciò che non conosco mi spaventa. Perché non sarò mai pronta a stringere fra le braccia la luce. Perché la mia dimensione è un’altra, ed ora lo so: quella mia certezza non ha fatto altro che illudermi e prendersi gioco di me.
Mi auguro non vada ad infestare un altro essere umano, o, se fosse, che qualcuno abbia pietà di lui, e lo aiuti.
Immagino di essere stata un buon corpo ospite. Lei sicuramente è stata un eccezionale parassita.
Guardami: oscillo, svuotata.
Sono solo una molle esuvia cianotica, senza alcun istinto di sopravvivenza manifesto.
Chiudo gli occhi, cancellando dalla mia visuale le case dei vicini: nessuno si è accorto di nulla, sono ancora tutti a letto.
Rantolo un po’, perché il nodo non l’ho stretto abbastanza, ma sottovoce: non c’è bisogno di dare spettacolo.
L’alba arriva a passi lenti e saluto il sole con l’ultimo fiato, andando incontro a quel buio che tanto mi somiglia.
Oscillo.

di Giulia Massetto

Foto di Urbex_Footsteps

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