Nel mio bicchiere c’era un elefante.
Era un elefante completo, con tanto di zampe, coda, orecchie e proboscide.
Era incredibile come la schiuma della birra avesse delineato con tanta perfezione il pachiderma.
Mi trovai a pensare alla questione (sentita probabilmente da bambina ai quiz de Alle falde del Kilimangiaro, programma che mio padre seguiva religiosamente ogni domenica invernale, intervallando la visione alle parole crociate) che le orecchie degli elefanti fossero così grandi per disperdere il calore corporeo e che la famosa paura per i topi derivasse dal fatto che questi si potessero infilare nella proboscide, soffocandoli.
Poveri elefanti.
Estrassi il telefono e fotografai l’animale di schiuma alcolica. Prima o poi lo avrei postato su qualche social, mi dissi. All’epoca non sapevo non lo avrei fatto mai. Comunque, era un vero elefante.
Pazzesco.
Dopo la foto, però, non sollevai lo sguardo dal bicchiere. Il cranio mi ronzava bestialmente nello sforzo di mantenermi concentrata su qualsiasi cosa si trovasse sulla superficie del tavolo, anziché su quello che mi accadeva attorno. Cosa che risultava alquanto impegnativa. Anche far finta che lui non fosse in piedi abbracciato ad uno sconosciuto sbronzo assieme a quella tizia volgare col ciuffo bianco, era un tantino complicato. Tutti urlavano, tutti erano sbronzi, qualcuno fatto di MDMA, ma io dovevo restare seduta, ferma, non dovevo farmi notare. Bevevo per schermarmi dai loro occhi, da lui che non si sapeva cosa stesse progettando per me, quella sera.
Io e Roberto eravamo ufficialmente sposati da quarantotto ore, ma a quel tavolo e in tutto il bar nessuno lo sapeva. Perché lui non mi aveva presentata come sua moglie. Per la precisione, non mi aveva presentata affatto. L’avevo dovuto fare io, come al solito, con il viso tirato e l’espressione di chi finge di essere totalmente a proprio agio, facendo uscire la parola Elisabetta strizzata tra le labbra come tra due rulli compressori, appiattendola, facendola volare per aria come un balloon bidimensionale. Tutti avevano annuito gentili ma spaesati nell’apprendere il mio nome, senza sapere perché diavolo io fossi a quel tavolo. Io di certo non l’avrei detto. Doveva farlo lui. Doveva confermarmi che eravamo davvero sposati. E l’unico modo reale che aveva per farlo era presentarmi come sua moglie. Ma lui si era tolto da qualsiasi empasse non facendolo affatto, delegando a me lo spogliarello del nome davanti ad una decina di sconosciuti, avvicinatisi a me con lo stesso fare di chi in chiesa va a dare la pace allo sconosciuto che “forse è il cugino di Mirco, ma non ci vedo bene da qui, aspetta che quando c’è la pace vado a stringergli la mano, ah no non era il cugino di Mirco, boh non so chi sia, però non guardarlo, vah”.
Per cui, senza identificarmi con nulla e in nulla, stavo. Stavo affondata in quella sedia scomoda, fissando la mia terza birra.
Ci eravamo sposati proprio lì a Torino, dove ci eravamo incontranti circa un anno prima, l’inizio di una relazione che sembrava non voler prendere mai un nome. Finché semplicemente lui non mi aveva chiesto: ci sposiamo?
Io non credetti subito a quella domanda, ma per sicurezza accettai. Per cui decidemmo di sposarci, con solo due amici a farci da testimoni. L’avevamo fatto e basta, come vere persone moderne.
Io però, così facendo, mi sentivo ancora totalmente invisibile al suo mondo, alle sue persone.
Esistevo? Mi vedevano? O ero della stessa consistenza di quell’elefante sul vetro del bicchiere? Sarei esistita davvero un giorno o sarei stata solo un grumo di sporcizia?
Qualsiasi cosa stessi pensando, andò in frantumi, sbriciolata da un rumore da spaccare le orecchie. Il suono assordante che fece quella sedia trascinata con violenza al mio fianco echeggiò tra i portici gremiti di gente come il barrito di un elefante.
…elefante?
“State insiemeh?!”
Ancora scossa da quell’urlo metallico sul lastricato notturno, voltai lentamente al testa verso la presenza che aveva deciso senza nessun invito di accaparrarsi una fetta di spazio accanto a me: la tizia volgare, quella che si era fatta fotografare con mio marito e il tizio sbronzo sedeva troppo vicino a me, gli occhi sgranati e un sorriso da coccodrillo divaricato tra le guance. Io la fissai, incredula. Sentii subito di trovarmi in pericolo, proprio come se quello davanti a me fosse un vero coccodrillo, che ruggiva facendo vibrare l’acqua in cui era immerso. Pensai di lanciarle in faccia la birra e darmela a gambe, ma valutai che quello non fosse un comportamento socialmente accettato nei quartieri del centro di Torino. Cercai di calmarmi. Non avevo idea di chi fosse, ma faceva parte di quella ressa di gente che conosceva mio marito, per cui, in un riflesso sporco sul pelo della pozza marcia da cui usciva, era di conseguenza conoscente mia, come il cugino di Mirco in chiesa.
Come se il mio stato di disagio non fosse stato già alle stelle, si era pure avvicinata urlando, spalancando le vocali, ponendo una domanda inopportuna.
La osservai in quella agghiacciante immobilità che aveva assunto a pochi centimetri da me, cercando di capire cosa stesse succedendo. Doveva avere la mia età o qualche anno di più, portava i capelli neri raccolti in un elaborato crocchio e quel ciuffo bianco studiatissimo si arrampicava a spirale come un’orgogliosa moglie di Frankenstein. La donna mi fissava ad occhi spalancati (probabilmente riluceva sulla sua retina un po’ di MDMA), avvolta in un cappotto a doppio petto rosso. I suoi lineamenti erano dimenticabili, ma di certo mai avrei dimenticato una cosa: densi fili di bava schiumosa le si attorcigliavano tra i denti, orgogliosamente esposti in un sorriso allucinato verso di me. Era così vicina che avrei potuto contarli uno ad uno.
Cercando di non farmi notare, afferrai i braccioli della sedia e, lentamente, fingendo di starmici aggiustando, la spinsi indietro, di modo di prendere spazio da lei e chiesi:
“Come, scusa?”
E, come in una sorta di storpiato balletto, lei mi imitò: afferrò i braccioli della sedia e, nuovamente trascinandola di modo da far urlare le gambe di ferro sul marciapiede, recuperò lo spazio che avevo liberato.
“Tu e lui,” replicò con un cenno verso mio marito, che stava in piedi chiacchierando con un suo amico dagli occhi truccati di nero. “State insiemeh?”
Aveva ancora gli occhi ancora sbarrati, i fili di bava bene in vista sulle zanne. Mi parve di sentire il suo ruggito far vibrare la sedia, ma cercai di sottrarmi mentalmente a quello zoo che stavo creando tra i colonnati della città. L’istinto, come per la birra lanciata in faccia, era quello di proferire un croccante: e a te, che cazzo ti frega?
Ma era una del gruppo, una della mischia, una di loro. E io, appunto, ancora non esistevo nella cerchia di persone che gravitavano attorno a mio marito. Dovevo guadagnarmi un posto di decenza, anzi, dovevano tutti trovarmi deliziosa e simpatica, di modo che più tardi, quando Roberto si sarebbe deciso a dire che ero sua moglie, tutti gli avrebbero fatto le congratulazioni dicendo che ero davvero deliziosa e simpatica, non una stronza aggressiva. Anche se la stronza aggressiva sembrava quella che mi si era piazzata accanto urlando e facendomi domande sulla mia vita personale.
Ma decisi di mitigarmi, raddrizzando la schiena per apparire umana e sicura di me. E risposi:
“Più o meno.”
Ma come?!
“Sì” corressi.
Perché, dannazione, era vero! Eravamo sposati! Vivevamo assieme!
Elisabetta, porco cazzo, sii elefante!
…cioè grassa?

Cercai di scacciare quel breve battibecco mentale, una minaccia alla volta, mi dissi. Per cui, assunsi un’espressione di superiorità dopo aver condiviso quella comunicazione di fondamentale importanza.
Ma il volto di lei non mutò. Come mi fossi trovata dinanzi ad una sorta di androide mal funzionante, i suoi occhi restarono spalancati, esattamente come le sue fauci. Ricoperte di vermetti bianchi.
“Bene!” disse aprendo le e tanto da far vibrare i bicchieri. “Anche io ci sono stata con lui, sai?”
Avvertii qualcosa di liquido e gelido scendermi lungo la schiena.
Non poteva star succedendo davvero. Non in quel momento, non due giorni dopo il matrimonio. Matrimonio che, oltretutto, si trovava in quella fase prettamente femminile di ansia nei confronti di un passato sconosciuto, che sorge come melma. O merda, se si preferisce. Un’ondata che si ingrossa come uno tsunami lercio, che arriva lento, da lontano. Però, ecco, è una fase dove ti aspetti uno tsunami, non un coccodrillo che ti azzanna alla proboscide spuntando dalla pozza di birra da cui ti stai abbeverando
La fissai.
Lei continuò a fissarmi.
Nulla di lei mutava: il sorriso, gli occhi, rimasero fermi. Solo quei filetti bianchi tra i denti sembravano accrescere di numero, muoversi.
“Oh” fu l’unica cosa che riuscii a proferire.
“Sì!” urlò ancora lei. “Due anni di relazione!”
Cercando di non farmi fondere il cervello da quelle vocali spalancate, feci un breve conto mentale e non capii dove posizionarla rispetto a quello che sapevo di mio marito. No, non c’era tecnicamente spazio per lei. A meno che…
Qualcosa in me si mosse. Anzi, si raffreddò. Sentii tutto il mio corpo mutare, sentii il sangue divenire gelido. Il pacioso elefante che era in me era andato a farsi una passeggiata lontano dalla pozza di birra, proboscide mancante. Mi stupii di sentire dell’altro nella mia pelle. Avvolsi l’avambraccio come delle spire attorno al bracciolo, mentre qualcosa di ghiacciato mi raggiunse il cervello.
“Due anni!” rimarcai.
La voce mi si era fatta metallica, un sibilo accompagnò le parole.
Il volto del coccodrillo rimase ancora impassibile, ma qualcosa sembrava starsi muovendo. Non sapevo cosa, ma forse l’avevo presa in contropiede.
“Sì, una relazione online” precisò.
Brutta troia.
Mi sembrava di essere schizzata in una di quelle commediole romantiche all’americana, dove a pochi passi dalla felicità della protagonista, arriva la cattiva che mette zizzania. La gente urla, inizia a tirarsi i capelli e tutto va a puttane.
Ero stata deliberatamente attaccata nella mia placida forma di pachiderma, avevo perso la mia simpatica proboscide, la mia deliziosa e simpatica proboscide. Ora stava sorgendo una bestiaccia nera e viscida, la sentivo strisciarmi tra le vertebre. Mi raggiunse la gola, spaccò le mie labbra. Ero qualcos’altro. E quel qualcos’altro parlò:
“Però!” esclamai. “E avete scopato?” e, sganciando le spire dal bracciolo della sedia, presi un sorso di birra.
Ancora la sua faccia non cambiò. Era incredibile. Continuava a sorridere, quei suoi cazzo di occhi continuavano ad essere spalancati.
“Sesso orale!” dichiarò spalancando tutte le vocali come probabilmente era abituata a spalancare quelle appendici chiamate gambe.
La mia risposta arrivò spontanea, un getto di veleno spruzzato in aria:
“Figo, abbiamo succhiato lo stesso cazzo” e buttai giù il resto della birra, lavando via il pachiderma.
Non ne restava più da lanciarle in faccia, ma soprattutto non avevo più voglia di scappare. Avevo solo voglia di azzannarle la gola e staccargliela.
Quando mi voltai, qualcosa su quel suo muso merdoso si era incrinato. Era impercettibile, ma non era contenta della mia risposta.
“Ti vedo a disagio” disse.
In quel momento, tornai a fissare i fili. Quei dannati fili di bava. Quando aveva parlato, staccando i due archi di denti l’uno dall’altro, quelle cose bianche e dense si erano allungate, stiracchiandosi e poi, come elastici rotti, si erano divise con uno schiocco. Le fissai un istante. Mi sembrò, senza motivo, che si stessero muovendo.
…si muovevano davvero.
Tra i suoi denti placidi scivolavano fili bianchi, lunghi, ricci.
Alle falde del Kilimangiaro mi schizzò al cervello in meno di un istante: Dracunculus. Un verme parassita originario della Guinea era stato trasportato fino a Torino tra le zanne di quello schifoso coccodrillo che avevo davanti alla faccia.
La sua bocca era piena di orribili strisce biancastre che, se contratte, ti si infilavano nella pelle e germinavano come immense strisce aliene. Una malattia vivente, una schifezza cosmica che passava dalla pozza di birra da cui ti abbeveravi fino a riempirti la pelle e proliferare tra vesciche e vomito. E il vomito era la cosa minore.
Senza più cerimonie, piantai con tutta la forza che avevo le gambe sul lastricato, spingendo indietro la sedia, rispondendo al suo casino bestiale.
“Meglio se ti levi di torno” le dissi sibilando.
Non si mosse. Gli occhi restarono spalancati. Il sorriso fremette.
Uno di quei fili bianchi, lungo quasi venti centimetri, le scivolò dall’angolo della bocca e cadde a terra. Sgranai gli occhi e seguii la via di quella bestia che, come un prolungamento dell’essere da cui era uscito, si diresse verso i miei piedi con lenta certezza. Cacciai un urlo e schiacciai il parassita col tacco. Ma in un istante, il ritaglio di campo visivo che inquadrava le mie scarpe e il marciapiede, si riempì di virgole biancastre. Alzai lo sguardo sul coccodrillo: la femmina stava sbavando come una iena rabbiosa. Ma non era schiuma quella che fuoriusciva dalla bocca: grumi di vermi, attorcigliati tra loro come spaghetti si contorcevano come spurghi tra le sue fauci, franando a terra, cadendole sulla giacca.
Scattai in piedi con un sibilo rabbioso mentre quelle matasse iniziavano a districarsi. I denti sempre serrati in un sorriso folle, la donna partoriva chili di parassiti da quella bocca marcia che aveva avvolto il cazzo di mio marito tra una relazione seria e un’altra.
Un mostro marcescente materializzatosi da un passato che non conoscevo con lo scopo di infettare e contaminare il mio presente. No, ‘fanculo, lo tsunami di merda lo avrei schivato. Ancor meglio, avrei disinfettato tutto.
Scattai. Le fui addosso in meno di un secondo, le dita avvolte attorno al collo. Sulle mie braccia piovvero decine di quei fili perversi, che iniziarono immediatamente ad arrampicarsi lungo la giacca, puntando il mio viso.
Ma non me ne fregava niente.
Avvolsi le dita attorno al suo collo morbido e lei rise. Incastrati come pezzi di crauto tra i denti, i vermi si muovevano inviperiti, cercavano me.
La fortuna voleva che fossi davvero incazzata. E forse dell’elefante non avevo perso per lo meno la carica.
In un gesto rapido, tirai il suo collo verso di me e, ancor più rapidamente, addentai la trachea, affondando i denti, schizzando tutto il veleno di quei mesi e di quegli istanti dentro le sue carni.
Uno scatto indietro della mia testa, le mandibole serrate. Il suono fu quello di uno straccio che si lacera. Sputai a terra la massa cartilaginea calda e, tra le sfumature del rosso, potei vedere altri vermi, che stavano per raggiungere la sua bocca, ancora alla ricerca di me.
Vidi la sua mandibola irrorarsi di sangue e contrarsi in un sonoro clack!, tranciando qualcuna di quelle sue germinazioni.
Respiravo profondamente, il suo sangue che mi colava dalla bocca, il mio che mi pulsava nelle tempie. In quel momento, avvertii il bruciore di dove i parassiti avevano iniziato ad infilarsi nel mio collo, dietro le orecchie, ma non mollai la presa, le mani che grondavano di liquido caldo e denso. Spinsi con forza la testa di quella vacca. Cadde indietro, a peso morto, la sedia che fece un casino bestiale, di nuovo.
Ansimante, mi allontanai appena, spazzolando con le mani i vermi dalla giacca e scalciando via quelli che mi si stavano arrampicando sulle gambe. Mi voltai.
Tutti erano fermi, mio marito e un suo amico dagli occhi truccati mi fissavano sconvolti. Notai nello sguardo di Roberto la consapevolezza di una lieve colpa, come se non avesse potuto rimproverarmi del fatto di aver appena ammazzato un sacco pieno di parassiti.
No, non poteva.
Mi avvicinai a lui, strappando via con un singulto gli insetti che si erano riusciti ad infilare nella mia carne.
Una volta raggiunti lui e il suo amico, sputai a terra il resto del sangue di quella creatura e diedi un bacio sulla guancia di Roberto, lasciandogli l’impronta macabra delle mie labbra sulla pelle. Gli tolsi dalle mani il bicchiere di whisky che stava bevendo. Lo finii in un sorso e mi pulii la bocca con un colpo di manica.
Deliziosa e simpatica.
Porsi la mano destra, intrisa di sangue, all’amico di mio marito, che, ancora ad occhi sgranati, me la strinse in silenzio.
“Ciao, sono Elisabetta.”
“Mia… mia moglie” concluse Roberto.

di Irene L. Visentin

Foto di Urbex_Footsteps

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