15 giugno 2013, da qualche parte nel mondo

“Taci, non fare rumore o te ne pentirai, cazzo se te ne pentirai!”

“Non volevo, giuro che non volevo. Non era mia intenzione, ho solo pensato…”

“Non ti ho detto forse di tacere? Tu non pensi! Da quando cazzo TU credi di pensare anche solo qualcosa, eh?”

“Io… io… volevo solo respirare…”

“Zitta cazzo! Zitta! Smettila o ti strappo quella maledetta lingua!”

Mugolando lei si zittì, rimpicciolendosi d’innanzi a quell’ombra oscura che la sovrastava, quasi volesse risucchiarla nel suo buio.

“Devo pensare, devo pensare. Lasciami pensare!”

L’Ombra emise un grottesco e terrificante urlo.

15 giugno 2010, quando tutto ebbe inizio

Uscii di casa lasciandomi alle spalle una vita che non poteva andare, il mio carnefice, sangue e lacrime versate e tante, tante speranze infrante. 

Chiusi quella porta senza voltarmi, ringhiando dietro a ciò che ero ed a ciò che non sapevo ancora sarei potuta diventare.

Quella sera, sola in una camera a me sconosciuta, in una casa che non sentivo mia e in una vita stretta quanto un paio di scarpe del numero sbagliato, chiudendo gli occhi sentii qualcosa appoggiarsi sul mio volto. 

Lei si sdraiò su di me, protese le braccia in avanti e si fece strada nelle mie carni, suggellando quell’unione con un bacio a fior di labbra che, in un sospiro, portò via con sé ogni brutto ricordo e i restanti brandelli della mia Anima. 

Caddi in un sonno profondo, il giorno seguente mi svegliai ricordando frammenti sparsi e confusi di ciò che avevo vissuto. 

Ero felice e serena, nessun peso sul cuore, solo quella sensazione di apparente tranquillità.

Scesi dal letto, sentii un improvviso bruciore al viso. 

Mi sfiorai la pelle, era come se qualcosa ci stesse sfregando sopra. 

Non c’era niente. 

Mi guardai allo specchio, scorsi solo un lieve rossore, niente di più.

Mi preparai per andare al lavoro, appena varcata la porta dell’ufficio i colleghi mi guardarono come fosse entrato un alieno. Qualcuno mi chiese che ci facevo lì, che se non me la sentivo potevo anche andare a casa. Non capii che stava succedendo, dal canto loro nessuno sembrava essere in grado di darmi spiegazioni o, più semplicemente, nessuno sembrava volerlo fare.

Il tempo passava e la mia pelle si faceva sempre più spenta, quel bruciore al viso non accennava ad andarsene e cominciavo a grattarmi anche sul resto del corpo. Feci qualche esame, l’ipotesi migliore fu uno sfogo da stress. Strano, non mi ero mai sentita meglio, eppure il mio corpo reagiva in altra maniera.

14 giugno 2013, il peso di quel che ho dimenticato

La pelle è in fiamme, le mie unghie dilaniano le carni sul resto del corpo. La testa scoppia, il cuore comincia a battere all’impazzata, i ricordi riaffiorano, lasciandomi senza alcuna via di scampo. È stato come aprire il vaso di Pandora e lei, l’Ombra, ne è uscita in tutta la sua violenza e malvagia oscurità. Un vortice nero intorno a me e scoppio in un pianto furioso che sembra non voler smettere. Singhiozzo, non riesco a respirare. Porto le mani al viso e comincio a cercarlo. Cerco qualcosa. Comincio a grattarmi con insistenza e, come se nulla fosse, mi ritrovo a premere le dita negli occhi, quasi come infilarle dentro ai buchi di una palla da bowling. Urlo con tutto il fiato che ho in gola, il dolore è insopportabile e sento che potrei anche morire in questo preciso istante. Comincio a tirare, lei oppone resistenza. Un conato di vomito mi assale, il dolore è troppo forte. Sputo sangue.

Stronza, cosa pensi di fare, non ce la farai, io sono parte di te oramai, io sono TE!

Un altro urlo sale dalle viscere, si attorciglia in gola ed esce con maggior violenza. I muscoli delle braccia si irrigidiscono nella fatica immane di avere la meglio. Quella cosa si stacca dalla mia pelle, che sembra voler divampare in un incendio. 

Un altro urlo raggiunge le mie membra. Questa volta non sono io, è lei. 

Perdo i sensi, svegliandomi dopo ore in un bagno di sudore, lacrime e sangue.

15 giugno 2013, da qualche parte nel mondo

“Taci, non fare rumore o te ne pentirai, cazzo se te ne pentirai!”

“Non volevo, giuro che non volevo. Non era mia intenzione, ho solo pensato…”

“Non ti ho detto forse di tacere? Tu non pensi! Da quando cazzo TU credi di pensare anche solo qualcosa, eh?”

“Io… io… volevo solo respirare…”

“Zitta cazzo! Zitta! Smettila o ti strappo quella maledetta lingua!”

Mugolando lei si zittì, rimpicciolendo d’innanzi a quell’ombra oscura che la sovrastava, quasi volesse risucchiarla nel suo buio.

“Devo pensare, devo pensare. Lasciami pensare!”

In quel bagno di sudore ritrovai lei davanti a me: nera più di quanto non potessi immaginare, zanne affilate al posto dei denti, due spilli dove sarebbero dovuti essere gli occhi. Era ringhiante e maleodorante, aleggiava minacciosamente sul mio volto e incalzava ad ogni mio accenno di movimento.

I ricordi avevano cominciato a riaffiorare lentamente, tanto che quell’apparente tranquillità, che per diverso tempo mi aveva accompagnata, cedeva il passo a insofferenza e malessere.

Ricordai il tanfo misto a vomito e alcol nel mio letto.

Ricordai un cuore vuoto e dolorante.

Ricordai un corpo inerme e senza alcun controllo.

Ricordai il respiro che veniva a mancare.

Ricordai quegli occhi freddi e indifferenti.

Ricordai quell’ultimo abbraccio.

Ricordai la voglia di morire che mi cresceva dentro.

Ricordai lividi, ferite e cicatrici e cominciai quasi a contarle, una ad una.

Ricordai il nero che mi aveva privata di ogni energia, ma qualcosa ancora sfuggiva.

“Zitta, zitta, non dire niente” e le sue lunghe, scarne e putrescenti dita che sfioravano il mio volto.

“Sssssh, cara, no, non piangere, non devi aver paura, abbiamo passato momenti splendidi insieme, non ricordi?”

– Puttana, vuoi liberarti di me, lo so, ma non puoi, perché io sono te e tu sei me. Noi siamo, non puoi fare a meno di me! –

Ansimavo, singhiozzavo disperata, mentre qualcosa mi sfuggiva, ma non sapevo cosa.

Ricordai come lei mi era entrata dentro, diventando madre, sorella, amica e amante, diventando parte di me.

Noi siamo.

Ricordai perché ero crollata e avevo scelto la morte.

Noi siamo.

Ricordai perché scelsi di andarmene e  chiudere quella porta dietro alle spalle.

Noi siamo.

Ricordai…

“NO. IO SONO!”

Vidi quelle fessure al posto degli occhi spalancarsi in orrendi buchi neri, le sue zanne sporgersi verso di me, respirai il suo alito gelido e maleodorante, udii quella  stridente voce farsi ancora più insopportabile.

L’urlo di una banshee si levò per tutta la stanza, lei si frantumò, spargendo ogni pezzo di dolore su tutto il pavimento.

Fu così, abbracciando la sofferenza che ci legava, che ricordammo chi era una e chi era l’altra, ritrovando la nostra pace.

di ROBERTA MERCATELLI, Intenebris LuxMea

Immagine creata dall’autrice con Midjourney

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