Non avrei mai creduto che una gioia così a portata di mano, bastava allungare un braccio nella culla, si sarebbe trasformata, al solo toccarla, in una roccia lavica incandescente. Il fuoco liquido sarebbe colato sulla mia mano e sceso giù lungo il polso e un urlo bestiale di dolore, uscito con troppa prepotenza dalla mia gola, mi avrebbe spezzato in due, mi avrebbe squarciato l’anima tutta, per lasciare infine il posto a una cicatrice brutta, increspata, invisibile, pulsante. Viva, una cicatrice talmente viva da restare ferita aperta per sempre.

Il dolore di queste due parole: per sempre.

*

Tastai piano in mezzo alle gambe e li sentii. Potevo toccare tutti i punti di sutura che mi avevano dato anche se non riuscivo a contarli. Facevano male, e non solo al tatto. Provai piano a lavarmi, tamponando con dolcezza, e mentre lo facevo, insieme all’acqua, scorrevano a getto lacrime di disfatta. Di fallimento. Davanti a me guardavo con disgusto e meraviglia questo ventre sgonfiato che non sembrava nemmeno appartenere al mio corpo. Era un palloncino floscio alla fine della festa, la pancia di una vecchia. La pelle era flaccida e rugosa e, quando mi chinavo, si formavano un numero infinito di pieghe mollicce. Una mostruosa opera d’arte. Il mio ventre era ben lontano dalla pienezza e rotondità dei giorni in cui aspettavo fiduciosa e ancor di più dai giorni in cui affioravano – e chissà se sarebbero mai più riaffiorati facendosi largo tra gli organi interni disposti ormai a caso – gli addominali di sportiva quale ero. Feci la doccia in questo bagno minuscolo e consumato dal tempo: i sanitari erano arrugginiti e fuori moda, la tavoletta del cesso inesistente, la doccia senza tendina, lo specchio non permetteva di vedere oltre il proprio collo, forse di proposito, e mi venne facile pensare quanto nel giro di poche ore ci si potesse sentire allo stesso modo: usurata, profanata, dissacrata.

Il mio unico obiettivo, ora, era di nutrire la creatura che avevo dato alla luce, sacrificando il mio corpo, spremendo l’unica cosa rimasta florida in quel momento: il mio seno. Un seno che per compiere il suo lavoro doveva arrivare a sanguinare, a screpolarsi e riempirsi di tagli. Pensai che quella creatura, come un essere notturno e malefico, si nutriva del mio sangue e rabbrividii.

Mi chiesero di mettere alla prova il mio corpo in mille modi possibili. Quello che avevo appena fatto non era abbastanza. Niente è mai abbastanza, questo mi era già chiaro da prima, ma non sapevo fin dove fosse possibile spingersi. A un’ora dal parto per il personale sanitario i miei organi dovevano riprendere la loro attività fisiologica, tornare a funzionare correttamente, come macchine programmate che non siamo.

L’ostetrica di turno era giovane, poco più che una ragazzina. Aveva un trucco molto curato, i capelli composti e una gran fretta di andarsene. Desiderai, in quel momento, essere al suo posto, qualunque fosse la sua vita. Continuava a incalzarmi sfogliando una cartelletta su cui annotava la sua impazienza.

Di fronte allo specchio trovai una casa riversa dopo un uragano. Un guscio abbandonato, sottosopra. Si intravedeva, tra i pori della pelle, un tempo felice, un tempo di cura e amore per quell’involucro di resti. Ma ci sarebbero voluti anni per ricostruirla e farla ritornare, non più come prima della tempesta, ma almeno abitabile. Anni in cui avrei provato prima a dimenticare, poi ad accettare e infine ad accogliere, come ci si lascia andare sotto la pioggia calda d’estate quando non c’è riparo. Mi rivolsi di nuovo allo specchio e pensando al futuro, a quel futuro, mi si offuscò la vista.

Le contrazioni che mi spinsero a correre all’ospedale all’una di notte non erano ancora così importanti da essere prese in considerazione. Mi contraevo ma non mi dilatavo. Pensai subito di aver sempre fatto le cose a metà. Il personale medico, malgrado il nome, seguiva una procedura standard, per tutte le donne la stessa. Ogni volta, però, era qualcosa di diverso, ogni donna che passava da lì aveva una storia da non raccontare o che avrebbe adattato per gli altri, finendo per crederci. Mi contraevo e mi piegavo su me stessa come una bestia in fin di vita a causa di un dolore che cresceva e che non sopportavo e intorno a me i medici andavano e venivano, correvano, ridevano e a volte qualcuno urlava. Soffrire sembrava non essere accettabile in nessun’altra circostanza tranne quella.

Chiesi l’epidurale ma dissero che mancava poco, che si vedeva la testa, una testa piena di capelli biondi. Dissero anche che era una bella bambina, bella come la mamma, adesso sorridevano mestamente ma la bambina non l’avevano ancora vista. Capii solo dopo quello che volevano: che il parto si concludesse alla svelta. Avanti il prossimo.

Le loro voci erano metalliche. Invocai sollievo e loro mi praticarono un’episiotomia che mi lacerò la carne e il cuore in due parti. Un etto di dolore e un etto e mezzo di forzato amore. Tagliarono senza chiedere il permesso, e continuarono a tagliare nei miei sogni a lungo. I medici e le ostetriche adesso venivano e restavano, c’erano quattro cinque persone davanti a me. Nessuno di loro mi guardava negli occhi. Come se l’interesse che adesso destava loro il mio corpo non mi riguardasse. Ricucirono i brandelli del mio corpo come fossi a una bambola di pezza con cui si è giocato troppo. Era tutto finito.

La creatura lontana, i punti di sutura che sentivo entrare nella carne uno a uno come una liberazione, la mano di mio marito sudata nella mia che non sapevo che farci e il suo sguardo perso. Era tutto annebbiato e sarebbe passato un lungo tempo prima di vederci di nuovo chiaro. Chi era quella bambina che adesso dormiva accanto a me? Sembrava morta. Mi toccai la pancia.

Ero sola.

di Veronica Nucci

Foto di Giulia Massetto